PERCHÉ NOI VENETI SIAMO DIVENTATI RIDICOLI (E COME RIMEDIARE)

tanko1Duole ammetterlo, ma la faccenda dei secessionisti col “tanko” sta coprendo noi veneti di ridicolo: tutti, anche quelli fra noi che non hanno niente a che fare con le aspirazioni indipendentiste, che aborriscono i leghismi e si sentono “cosmopoliti”. Alzi la mano chi non ha ricevuto uno sfottò virtuale da qualche amico di altre regioni… tankolegaNon appaiono ridicoli solo gli arrestati, ma anche chi li difende, chi sussiegosamente li ignora, persino chi li stigmatizza e i giudici che li stanno perseguendo, sospettati di dare troppa importanza a quella che in fondo in fondo a molti appare poco più che una goliardata.

SE NON FACCIAMO RIDERE SIAMO ANTIPATICI

Purtroppo per il Veneto non si tratta di una novità: l’essere ridicoli è l’altra faccia di quell’essere antipatici che ci affligge quando rivendichiamo (ma ormai è acqua passata) i nostri successi, oppure portiamo avanti su scala nazionale le nostre rivendicazioni, o ancora – drammaticamente – di quell’essere patetici quando a causa delle frustrazioni imprenditoriali e umane alcuni di noi scelgono di morire.

Sarebbe dunque il caso che cominciassimo a chiederci perché; perché a differenza da altre regioni le macchiette localiste (la servetta che dice “comandi”, il contadino bigotto e brontolone) siano diventate lo stigma di un popolo che aspira invece ad essere l’erede dei fasti della Serenissima o l’interprete di successi economici planetari.

COLPEVOLI DI INADEGUATEZZA

Tra i meccanismi della comicità il più classico, assieme alle disgrazie che capitano alla vittima designata, è l’inadeguatezza, la sproporzione fra i mezzi e le aspirazioni. E qui ci siamo in pieno, no? Inadeguato è il sogno Serenissimo (l’ho già scritto qui sotto il 27 marzo http://sergiofrigo.myblog.it/2014/03/27/indipendentismi-populismi-le-soluzioni-semplici-sbagliate-ai-problemi-della-storia/) rispetto alle sfide della complessità globale che ci sottopone la modernità; inadeguati sono gli uomini che lo perseguono e i mezzi che essi sono in grado di mettere in campo per realizzarlo: mezzi intellettuali, intendo, ma anche materiali, ovvero “militari”, se è lecito definire in quel modo la ridicola “macchina da guerra” realizzata da quei bravi artigiani.

Freda e Ventura, in altre epoche, e poi Toni Negri e compagnia, che erano uomini di mondo e dotati di ben altro spessore culturale, nella loro follia avevano almeno intuito l’asimmetria dello scontro a cui si accingevano, e si attrezzarono a loro modo, riuscendo a creare grattacapi seri alle istituzioni e al “Potere” (e purtroppo alle persone che li rappresentavano); ma Rocchetta, Contin e compagni?

Basta, non voglio infierire su persone generose coi loro sogni. Quello che mi preme suggerire, qui, è che ci devono essere altri modi per conseguire l’autorevolezza che pensiamo (anche giustamente) di meritare, sfuggendo alle morse del ridicolo, oppure dell’antipatia o del patetico.

NON STRUMENTALIZZARE LA NOSTRA STORIA, MA VALORIZZARE LA NOSTRA CULTURA

Uno di questi modi è, banalmente, investire su quello che è il lascito più universale della nostra Storia, invece che insistere a puntare sul Pil (dove saremmo destinati ad altre frustrazioni): ma non tanto l’eredità meschina di un passato bric a brac da ripassare fra noi, per curare le frustrazioni e cercare di ribadire una superiorità che non ci viene riconosciuta più da nessuno, ma quel lascito di cultura e di apertura al mondo che ci arricchisce proprio nel mentre lo condividiamo con gli altri.

E come è la carenza di cultura a renderci ora ridicoli, saranno la cura e la condivisione della cultura a renderci di nuovo autorevoli: riservato al passato il posto che gli compete (che è il passato, appunto, tanto più importante quanto meno asservito alle miserie del presente), abbiamo nugoli di intellettuali, nell’ultimo secolo, a cui guardare, e che ci hanno fatto davvero grandi, anche se che noi li abbiamo colpevolmente rimossi, perché poco in linea con i valori dominanti, finalizzati solo al produrre e guadagnare.

RITROVIAMO GLI AUTORI SCOMODI DI IERI E DI OGGI

Lasciando dunque in pace per un po’ i Dogi, i Serenissimi e il Leone di San Marco, e ricominciamo piuttosto a tirare fuori dai cassetti i libri di Piovene, Parise, Zanzotto, Meneghello, Camon, Bugaro, Villalta, Trevisan, e magari il nuovissimo “Cartongesso” del vincitore del Calvino Francesco Maino. Li troveremo irridenti, sgradevoli, scomodi? Vuol dire che ci stanno facendo bene, scavandoci dentro. E proprio nel loro essere scomodi, eccentrici, diversi, c’è – come dice Ilvo Diamanti – l’essenza più profonda del loro essere veneti.

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L’ASSENZA DELLA REGIONE VENETO AL PREMIO RIGONI STERN DENOTA INDIFFERENZA PER LA CULTURA E PER LA MONTAGNA

CoronaSternRivaSpiace, davanti a una festa di popolo e di cultura, com’è stata la serata del Premio Mario Rigoni Stern sabato sera a Riva del Garda, doversi occupare per l’ennesima volta dell’assenza della Regione Veneto nei suoi rappresentanti istituzionali. Com’è noto ha vinto Mauro Corona per il suo libro “La voce degli uomini freddi”: “Questo riconoscimento è un riscatto per la mia vita scellerata, per la quale Mario Rigoni Stern non mancava di sgridarmi – così lo scrittore del Vajont (nella foto di Giuseppe Mendicino con Alberico Rigoni) ha commentato sabato sera il conferimento del premio intitolato al Maestro asiaghese – Ora magari posso permettermi di dirmi, guardandomi allo specchio, “forse ce l’ho fatta ad uscire dall’inferno””.

LA CONFESSIONE DI MAURO CORONA: “SCRIVENDO RIESCO A DIMENTICARE IL MIO PASSATO”

Lo scrittore-scultore-scalatore ertano naturalmente ha tenuto banco, nel confronto con Paolo Rumiz, Luca Mercalli (che ha tenuto una lectio magistralis sul clima) e l’ex presidente nazionale del Cai Annibale Salsa, mostrando però il suo lato più raccolto, inquieto e indifeso: si è soffermato sul senso del limite che deve essere recuperato nella nostra società e dentro ognuno di noi, e ha approfondito le ragioni del suo scrivere con l’aiuto di qualche testimone importante, da Cecov (“scrivo per lottare contro l’oblio”) a Brodskij (“per salvare qualcosa della nostra civiltà personale”), spiegando a sua volta di scrivere “perché mi diverte, mi tiene in piedi, mi fa compagnia: scrivendo dimentico il mio passato, scolpendo non ci riesco”.

LA CANZONE UCRAINA AMATA DAL “SERGENTE”

La serata ha poi conosciuto un momento di grande intensitàIMG_6192 con Bepi De Marzi, altro grande amico di Rigoni Stern, che ha affidato ad un giovane ensemble di fiati del locale Conservatorio una sua toccante elaborazione della canzone popolare ucraina “Misjac na bedi” (La luna è nel cielo), che parla di un soldato che ritrova il suo amore da cui è stato a lungo lontano, e che fu cantata a Mario Rigoni Stern e alla moglie Anna (commossa) da un gruppo di giovani a Kiev prima del loro rientro in Italia dopo un viaggio sui luoghi della ritirata di Russia.

LA REGIONE ANCORA UNA VOLTA ASSENTE, LA DENUNCIA DEL SINDACO

L’unica nota stonata è venuta, come anticipato, dalla Regione Veneto, che ancora una volta è stata assente con i suoi rappresentanti istituzionali, facendosi rappresentare (ma solo dopo pressanti richieste del Comune di Asiago e della famiglia dello scrittore) da un funzionario del settore cultura, latore di una lettera del presidente Luca Zaia. E questo nonostante l’assessore alla cultura nonché vice-presidente regionale Marino Zorzato lo scorso anno avesse promesso ufficialmente (proprio in un intervista che gli avevo fatto per il Gazzettino) di esserci “il prossimo anno, e anche quello dopo”. Il sindaco di Asiago Andrea Gios non ha mancato di sottolineare lo sgarbo, con parole di fuoco: “Su questo tema c’è un’insensibilità che non riesco a spiegarmi. Non si rendono conto a Venezia che se andiamo avanti di questo passo Rigoni Stern se lo “annettono” i trentini, che tanto affetto gli stanno dimostrando? Non basta investire dei soldi nel Premio (la Regione stanzia 10mila euro, poco meno dei trentini, ndr), bisogna essere presenti, altrimenti sono soldi buttati”.

In ogni caso non si può non registrare che in quattro edizioni del Premio (due ad Asiago e due a Riva) la Regione si è fatta rappresentare (e due sole volte) solo da dirigenti, senza mai la presenza di un esponente politico.

UN DISINTERESSE CHE ALIMENTA LE SPINTE SECESSIONISTE DELLA MONTAGNA

È evidente a questo punto che c’è un problema, non saprei se fra Palazzo Balbi e la cultura tout court, oppure con la montagna o l’Altopiano, magari in relazione alla questione del Piano Casa regionale fortemente osteggiato dal Comune di Asiago. Certo questo atteggiamento non fa che alimentare le spinte secessioniste verso il Trentino Alto Adige che investono tutta l’area montana al confine fra le due regioni: altro che Veneto separato dall’Italia, come vogliono gli indipendentisti! I montanari se ne vogliono andare da Venezia, che sentono lontana e indifferente alle problematiche di un territorio in cui vivere è più complicato che altrove, ma che è essenziale per il mantenimento degli equilibri idrogeologici ed ecologici dell’intera regione, come non si stancava di ripetere Mario Rigoni Stern.

Se ogni tanto qualcuno dei referendum separatisti non ottiene il quorum, come è avvenuto domenica nel Comelico Superiore, è solo perché tra gli elettori vengono conteggiati anche gli emigranti residenti all’estero iscritti all’Aire: ma se si contassero solo i voti dei residenti la volontà di “emigrare” in Trentino sarebbe largamente maggioritaria.

Venezia però continua a non avvertirlo.

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INDIPENDENTISMI E POPULISMI, LE SOLUZIONI SEMPLICI – E SBAGLIATE – AI PROBLEMI DELLA STORIA

ReferendumVenetoEcco alcune cose che penso su indipendentismi e populismi (spesso xenofobi) che dominano la scena veneta, italiana ed europea.LePen

 

 

1 – Anche se li avessi visti coi miei occhi in fila ai seggi, farei fatica a credere che oltre due milioni di veneti (7 su 10) sono andati a votare per staccarsi dall’Italia. Ora che si affaccia la cifra ragionevole di 100mila votanti (ragionevole in relazione al numero di voti che hanno ottenuto nelle elezioni reali) qualcuno degli indipendentisti comincia a dire che non è il caso di sottilizzare con i numeri. Ma se siamo qui a discuterne è proprio perché loro hanno sparato questa cifra enorme, e il sistema mediatico (non solo italiano) ci è andato dietro acriticamente: per “soli” 100mila votanti non si sarebbe scomodato nessuno.

“RAPPRESENTIAMO IL POPOLO!”

2 – E’ tipico di tutti gli indipendentismi – dalla Corsica, ai Paesi Baschi, all’Irlanda del Nord – pretendere di rappresentare l’interezza del popolo, e arrogarsi il diritto (nel nome della resistenza all’oppressore) di scegliersi le modalità di lotta per la liberazione. Invece c’è un modo semplice per misurare il proprio peso elettorale effettivo, senza ricorrere a costosi e divisivi referendum: presentarsi alle elezioni con il proprio programma separatista (magari cercando – per una volta! – di non litigare subito su tutto), e chiedere agli elettori di votarlo.

UN’UTOPIA ANACRONISTICA

3 – Detto questo – e senza nulla togliere alla sincerità e alla nobiltà del sogno indipendentista – vorrei entrare nel merito spiegando perché al giorno d’oggi io ritengo l’indipendenza del Veneto (ma anche gran parte delle altre istanze secessioniste europee) un’utopia anacronistica, e inadatta al confronto con la modernità: la complessità che ha assunto il mondo moderno e la forza acquisita dai potentati economici internazionali – tendenzialmente globalizzati, impersonali, corporativi, monopolisti, concentrazionari – rendono indispensabile alla politica, che dovrebbe rappresentare gli interessi generali e garantire lo sviluppo anche futuro delle società, di assumere dimensioni (e poteri) analoghi, di gran lunga superiori a quelli che detiene attualmente.

A COSA SERVE L’EUROPA UNITA

4 – La dimensione continentale, nel caso dell’Europa, è a malapena sufficiente a reggere il confronto con i potentati economici globalizzati, e purtroppo la sua frammentazione politica, e il predominio al suo interno di interessi particolari (nazionali e corporativi) e di oligarchie burocratiche contribuiscono a renderla sempre più ininfluente. Ma quella per una vera unificazione europea resta a mio parere l’unica battaglia degna di essere combattuta per non far prevalere le forze cieche dell’accumulazione selvaggia e dell’ingiustizia globale.

5 – Le tendenze frazionistiche e i nazionalismi alla Le Pen da questo punto di vista sono deleteri, perché distraggono i popoli dai nodi reali del confronto, li illudono che le soluzioni siano in un ritorno alla purezza idealizzata del passato, e deviano risorse ed energie verso la realizzazione di piccole fortezze comunitarie destinate a non contare nulla nel confronto globale e ad essere spazzate via al primo stormire di foglie dei mercati.

GLI XENOFOBI SBAGLIANO NEMICO

6 – Un discorso a parte merita la degenerazione populista e xenofoba che (a volte, non sempre) accompagna la deriva nazionalista o regionalista. Il populismo interpreta il disagio dei bianchi poveri e delle classi medie impaurite, che arrendendosi all’impossibilità conclamata di rivendicare maggiore equità e una redistribuzione delle ricchezze a carico dei ceti più ricchi e potenti, individuano i propri avversari fra gli ultimi arrivati, gli immigrati, che sono i concorrenti diretti nella lotta per la sopravvivenza e nell’accesso alla pubblica assistenza. Sbagliano l’obiettivo, strumentalizzano il disagio sociale, confondono concorrenti e nemici, preparano un mondo sempre più incattivito e pericoloso.

LE COLPE DELLA SINISTRA (E IL SUO COMPITO OGGI)

7 – Va anche riconosciuto che gran parte del successo dei populisti è colpa di una sinistra che da un lato ha disimparato a fare il proprio mestiere di paladina dei diseredati, dall’altro ha introiettato molti dei valori, delle abitudini e dei difetti delle classi dirigenti tradizionali; la sua carica prima rivoluzionaria, poi riformista, è stata costretta a venire a patti da un lato con l’esigenza di rappresentare una maggioranza di cittadini che poveri in senso stretto non lo sono, e dall’altro con la necessità di fare i conti con i vincoli dei patti internazionali e le compatibilità dell’economia globale. Ad esempio: per stare sul mercato bisogna confrontarsi ora con costi del lavoro e condizioni di sicurezza enormemente ridotti rispetto ai nostri standard, e difendere lo status quo e i diritti acquisiti da noi diventa sempre più problematico: bisognerà dunque prendere atto prima o poi che l’impoverimento della società europea è reale, e che il nostro stile di vita dovrà modificarsi di conseguenza. Io penso che gestire questi cambiamenti con equità ed efficienza sia il compito storico che tocca alla sinistra oggi, e che nessuno – stante il suo back-ground ideale e la capacità di visione globale che essa ha saputo esprimere nei suoi momenti migliori – possa farlo meglio di lei (ma su questo la discussione è più che aperta).

QUESTIONE NAZIONALE E QUESTIONE VENETA

8 – Altra questione è quella dell’alta tassazione, dell’inaccettabile livello di corruzione, e di conseguenza della scarsa efficienza di cui da’ prova da decenni il nostro paese, che nelle condizioni descritte prima diventano devastanti per la tenuta del quadro produttivo e sociale. È tutto vero e reale, ma la rabbia, l’impotenza e la paura che pervadono la società veneta non sono diverse da quelle che si registrano in gran parte delle regioni italiane. Non solo: non si troverà in Italia una regione, un comune, un singolo cittadino che non siano convinti di aver dato al Paese il massimo e anche di più, e di aver ricevuto indietro molto meno; e nessuna comunità locale che non sia arci-convinta, come lo sono i veneti, di essere migliore di tutte le altre, per la propria storia, per le proprie caratteristiche geografiche, per le proprie doti umane o la propria voglia di lavorare. Ne sono convinto anch’io, ma non credo che fare da sé, e gli altri a bagno, sia la strada giusta per risolvere il problema. La storia è piena di proposte semplici e rapide per risolvere problemi complessi; peccato che si siano rivelate quasi tutte sbagliate.

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A MAURO CORONA IL PREMIO RIGONI STERN: “PER ME E’ MEGLIO DEL CAMPIELLO”

CoronaRigoniMauro Corona è il vincitore del Premio Mario Rigoni Stern per la letteratura multilingue delle Alpi, che gli verrà consegnato il 29 marzo prossimo a Riva del Garda. Un riconoscimento per lui importante come un Nobel, perché consacra anche ufficialmente quello che lui (con un certo pudore) sente di essere: un figlio letterario, sia pure irrequieto e scapestrato, del Maestro altopianese, colui che si è incaricato di portarne avanti nei libri – pur tra qualche contraddizione temperamentale – non solo i contenuti letterari più legati alla natura e alla montagna, ma anche la lezione di vita, i valori più profondi: Corona considera infatti Rigoni Stern non solo il suo nume tutelare letterario, ma anche il suo “padre putativo” della vita, la guida a cui guardava nei momenti di disorientamento anche esistenziale che gli è capitato di attraversare. «Tutto è iniziato con lui – racconta lo scrittore ertano – quando a vent’anni segnalò un raccontino che avevo inviato al Premio Carnia. Premio che vinsi qualche anno dopo con “Le voci del bosco” proprio grazie a lui. E poi ci avvicinava anche l’amore per le arrampicate. Per festeggiare il premio mi concederò un bicchiere di vino, dopo due anni e mezzo di astinenza”.

L’EREDE IRREQUIETO DELLO SCRITTORE DI ASIAGO
Rigoni Stern conservava in casa un busto ligneo di donna scolpito da Corona, Coronastatua e per andare in montagna usava un bastone da lui istoriato con un’aquila e alcuni folletti del bosco, uno dei pochi – fra i tanti che riceveva in dono – che non aveva regalato: «Me lo ha chiesto lui, una volta, dicendomi “Varda che son vecio, go bisogno del baston”. Ne fui orgoglioso e commosso».
Lo scrittore asiaghese apprezzava questo “figlioccio” scavezzacollo, in cui vedeva forse se stesso più giovane, quando l’irruenza dei suoi vent’anni non era stata ancora soffocata dal dolore della guerra e regolata dalla saggezza dell’esperienza e dell’età. Al tempo stesso lo metteva in guardia dagli atteggiamenti guasconi, che rischiavano di esporlo al dileggio. «Ci ho messo anni a capire che aveva ragione – racconta Corona – e che avrei dovuto cercare di imitarlo di più, il modo più giusto per ricordarlo».

LA GIURIA: “NELLA SUA OPERA I VALORI DI FRATELLANZA, RISPETTO PER L’AMBIENTE E UMANITA’ ALPINA”
Ora la giuria del premio (composta da Eraldo Affinati, curatore del Meridiano, dalla traduttrice francese Marie Hélène Angelini, dall’Accademica degli scrittori di montagna Margherita Detomas, dagli studiosi Paola Maria Filippi e Graziano Riccadonna e dal giornalista Paolo Rumiz) ha visto nell’ultimo libro di Corona “La voce degli uomini freddi” CoronaUominiquella “epopea delle genti di montagna, avvezze al pericolo e al sacrificio” a cui Rigoni Stern ha dedicato tutta la sua opera. “L’autore con la sua opera – continua la motivazione – rappresenta, nel contesto culturale che fa riferimento all’arco alpino, un’espressione particolarmente significativa del territorio e delle sue genti, bene cogliendo il messaggio del Premio intitolato a Mario Rigoni Stern, inteso a perpetuarne i valori di fratellanza, di rispetto per l’ambiente, di umanità alpina».
Non ci voleva credere, Corona, quando gli hanno comunicato, due sere fa, che era il vincitore: «Non l’ho detto a nessuno, neanche ai miei figli, prima della telefonata di Alberico (figlio dello scrittore asiaghese e presidente del Premio, ndr). Questo riconoscimento per me vale più di un Campiello, di uno Strega, e non per il premio in sé, ma per il nome che porta: gli uomini di valore, come lui, trasmettono forza anche senza saperlo, solo col loro esempio».

LE SEGNALAZIONI PER I ROMANZI DI CHIOCCHETTI E GNEDT
La giuria del Premio, valutando l’alta qualità delle opere selezionate, ha anche segnalato altri due romanzi fra i 25 titoli accettati dai selezionatori, di autori di lingua italiana, tedesca e ladina: “I misteri del Cjaslir” di Fabio Chiocchetti, (Curcu & Genovese) impegnativo romanzo storico con grande affresco dedicato alle leggende e alle storie popolari che circondano un santo vescovo e una presunta strega della Val di Fassa; e “Der Nachlass Domenico Minettis” (Il lascito di Domenico Minetti) di Dietmar Gnedt (Anton Pustet) , appassionante romanzo austriaco legato alla complessità della Grande guerra vista con gli occhi di un uomo di frontiera.

Il riconoscimento dedicato a Rigoni Stern, giunto alla 4a edizione e consegnato negli anni pari a Riva del Garda per la narrativa e in quelli dispari ad Asiago per la saggistica, attribuisce ai vincitori 10mila euro. Ad aggiudicarselo finora sono stati gli studiosi Alexis Bétemps e Dionigi Albera e lo scrittore sloveno Alojz Rebula. In giorno della premiazione – il 29 marzo nel Palazzo dei congressi di Riva del Garda, a partire dalle 17 – ci sarà una Lectio magistralis di Luca Mercalli, Presidente della Società Meteorologica Italiana, e gli interventi musicali a cura degli Allievi del Conservatorio di Trento e della Sezione Staccata di Riva del Garda, con brevi introduzioni di un altro amico di Rigoni Stern, il musicista Bepi De Marzi.

Si confida che stavolta (a differenza di due anni fa) ci sia una presenza più significativa dal Veneto.

 

 

COMMENTI

A differenza di molti puristi che storcono il naso alla fine credo che mauro Corona si meriti tutto il premio Rigoni Stern, se non altro perché il vecchio ne sarebbe stato felice.  È comunque un modo per dare visibilità al premio, attribuito negli anni scorsi a libri senz’altro importanti (bello quello di Rebula ma non un capolavoro e il resto dello scrittore sloveno non lo conosciamo; e… poi per la saggistica un libro nemmeno tradotto in italiano…) ma lontani dal pubblico delle librerie, per non dire di quello delle televisioni, una lontananza che poneva dei limiti all’affermarsi del premio. Un limite avvertito da molti, credo dallo stesso Alberico. Insomma un premio così a Mauro Corona per mille motivi è sicuramente strategico e non ci trovo nulla di male. Vedrai che a Riva ci sarà la folla. Quando poi il premio farà concorrenza per davvero al campiello e allo strega allora le parti si rovesceranno, sarà il premio  dare importanza ai premiati seppur sconosciuti.

Corona è uno dei pochi scrittori che ha dei fan e dei denigratori come una rock star, naturalmente i fan sono convinti di conoscere tutto del loro idolo e lo osannano per questo, i denigratori sono altrettanto convinti di conoscere bene il personaggio e lo insultano per questo, non serve aggiungere che sia fan che denigratori non sanno nulla di Corona e si guardano bene dal giudicarlo nell’unico modo a noi concesso: dai suoi libri. Corona ha scritto belle pagine, se ha una colpa è di aver scritto troppo in tutti i sensi. Ha fatto anche qualche soldino ma questa non è certo una colpa semmai un merito.

Andrea Nicolussi Golo

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ERMANNO OLMI, IN TRINCEA CONTRO TUTTE LE GUERRE

Olmifilm3Sono terminate nei giorni scorsi le riprese del nuovo film di Ermanno Olmi sulla Grande Guerra nell’Altopiano, che si intitolerà, poeticamente, “torneranno i prati”. Ora si passa al montaggio e alla post-produzione: sarà tutto pronto per l’autunno, potrebbe essere uno dei fiori all’occhiello della prossima Mostra del cinema di Venezia.

Produzione importante, con un budget di 3,2 milioni di euro, protagonisti fra gli altri Claudio Santamaria, Alessandro Sperduti, Francesco Formichetti, Andrea Di Maria, Camillo Grassi e Niccolò Senni e una settantina di comparse, selezionate tra giovani soprattutto del Triveneto di corporatura esile, com’erano all’epoca i nostri nonni.

A produrlo sono Cinemaundici, Ipotesi Cinema e Rai Cinema con l’apporto di Banca Popolare di Vicenza, Team Holding, Edison (che ha applicato il suo protocollo Green Movie per l’abbattimento delle emissioni durante le lavorazioni), e inoltre della Regione Veneto, Vicenza Film Commission e Nonino Distillatori, e il sostegno del Governo (Comitato per il centenario) e il supporto del Comune di Asiago, che ha avuto la soddisfazione di respingere le sirene trentine che avrebbero fatto ponti d’oro a Olmi.

“I CONFLITTI SONO SEMPRE D’ATTUALITA’: NON SI DEVONO CELEBRARE CON SVENTOLII DI BANDIERE”

foto (87)foto (88)Ieri ad Asiago un centinaio di giornalisti e addetti ai lavori hanno visitato uno dei set, una trincea ricostruita in Val Giardini, a un chilometro dalla casa di Olmi. Poi al Golf Club è seguito il saluto delle autorità regionali e locali e la conferenza stampa del regista, incentrata su una drammatica consapevolezza, accentuata dagli ultimi avvenimenti in Ucraina: purtroppo un film sulla guerra – una guerra di un secolo fa, apparentemente archiviata nel passato – continua ad essere di stringente attualità, foto (85)perché le inutili carneficine non sono (mai) escluse una volta per tutte, neppure dopo che l’umanità le ha sperimentate più volte sulla propria pelle. Questa consapevolezza ha accompagnato tutte le fasi di lavorazione della pellicola, anzi è stata la motivazione che ha spinto Olmi a fare il suo ennesimo “ultimo film”, come ha scherzato lui stesso, dall’alto dei suoi quasi 83 anni: “Quando Cecilia Valmarana di Rai Cinema me l’ha proposto ho sentito che era un impegno a cui non potevo sottrarmi: ma non volevo fare un film bello, bensì un film utile a capire il perché della guerra, l’atto più stupido che possa compiere l’Uomo, anche per evitare che le imminenti celebrazioni si risolvano nell’ennesimo, inutile sventolio di bandiere”.

“LA GUERRA NASCE PRIMA DI TUTTO DENTRO NOI STESSI, NELLE NOSTRE MESCHINITA’ QUOTIDIANE”

foto (86)Doveva essere il suo film logisticamente più “facile”, perché girato vicina a casa, oltre che nella trincea anche in un capannone poco lontano (per le scene del dormitorio), e in un’altra trincea gemella realizzata in Val Formica, a quota 1800 sempre in altopiano, per gli esterni con la neve: si è rivelato invece uno dei suoi film più difficili, sia per le proibitive complicazioni meteo, sia per le sgradevoli verità con cui il regista si è dovuto confrontare: che “la guerra nasce prima di tutto dentro di noi, nei piccoli atti di meschinità quotidiana, nei vaffanculo scagliati contro il prossimo per uno starnuto, Olmifilm4nelle omissioni di chi predica l’onestà senza praticarla”; e che “reagiamo con la stessa indifferenza di un secolo fa verso il male, e in più una colpevole disaffezione verso la democrazia faticosamente conquistata dai nostri padri (e i peggiori sono coloro che non vanno a votare)”. Cita Einstein e Camus, il vecchio regista (“non pretendiamo che le cose cambino se continuiamo a fare le stesse cose”, “affinché il pensiero cambi la vita bisogna che cambi colui che lo esprime”), stronca l’etica di Berlusconi ma anche l’opera degli storici di professione che non raccontano la verità sui conflitti perché asserviti al potere, e prende qualche distanza persino dagli scrittori di guerra (da Gadda a Lussu, e persino al suo antico sodale Mario Rigoni Stern) che “nelle loro opere pur pregevoli hanno metabolizzato la violenza in poesia. Ma in questo film volevo che parlassero coloro che non avevano voce, e hanno lasciato qualcosa di scritto solo per se stessi e i propri cari”.

UN FILM ONIRICO, ALLA VIGILIA DI CAPORETTO, CON DUE MILITARI CHE SI RIBELLANO A UN ORDINE INGIUSTO

OlmifilmDella pellicola in se stessa dice poco di più: che sarà un racconto onirico, incentrato su una notte dell’autunno del 1917 che prelude alla disfatta di Caporetto, con un gruppo di soldati (il più noto è Claudio Santamaria, alcuni sono gente del posto) alle prese con un ordine ingiusto e crudele, a cui due di loro decideranno di non obbedire: “Disobbedire, facendo prevalere la propria coscienza sulle esigenze militari, in questo caso è un atto morale, che diventa eroismo”, dice Olmi. Alla fine un’amara scoperta – “il vero nemico siamo noi stessi” – e una speranza: dopo la carneficina “torneranno i prati”. Ma in questi prati concimati (letteralmente) di sangue, una cosa soprattutto andrà coltivata: la memoria, affinché la storia non si ripeta.

ENORMI DIFFICOLTA’ PER LE RIPRESE A CAUSA DELLE MASSICCE NEVICATE

Per rendersi conto delle difficoltà create dal meteo durante le otto settimane di riprese (effettuate con pellicola paventando i rischi del freddo) in quello che è stato probabilmente l’inverno più instabile e nevoso degli ultimi decenni basterà tenere a mente una cifra: 200, il numero di trasporti di neve eseguiti dai camion per mantenere libera la trincea realizzata per gli esterni in Val Formica, con relativa massiccia mobilitazione di spalatori, e le numerosissime scene rifatte a causa dei cambiamenti meteorologici.

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UCRAINA, LA DURA LEZIONE DI PUTIN ALL’OCCIDENTE IMBELLE E CONFUSO

PutinCrimeaAlcune considerazioni sconsolate, e qualche conclusione anti-convenzionale, dalla crisi ucraina:

– Putin è un bandito, ma è abile e sa cosa vuole il suo popolo, dentro e fuori la Russia

– I “grandi popoli” sono prepotenti (Russia, Usa, Cina, Germania, Giappone…) Gli altri popoli, se non hanno “risorse” per contrattare, sono costretti a subire (Ucraina, Tibet, Grecia)

– Non esiste più (è mai esistito?) l’internazionalismo. Escluso nell’economia, dove si chiama globalizzazione: per questo la politica oggi è così debole, ovunque

– La politica debole è succube anche delle piazze: nel Nord Africa ieri, oggi in Ucraina: con effetti spesso disastrosi

– Le piazze (e il web) sono facilmente strumentalizzabili, ma le società profonde sono un’altra cosa, e lo si scopre sempre troppo tardi

– La piazza, a Kiev, trascinata dagli estremisti di destra, ha stracciato l’unico accordo possibile per la transizione ucraina, proposto (anche se in ritardo) dall’Europa e subìto da Putin

– Putin e i russi-ucraini non potevano subire il nuovo governo anti-russo voluto dalla piazza e accettato obtorto collo dall’Europa

– L’Occidente non può ascoltare la piazza di Kiev e ignorare quella di Sebastopoli

– Quindi il bandito Putin ha buon gioco (e qualche ragione storica) nelle sue rivendicazioni

– Il risultato è che l’Ucraina perderà la Crimea, se va bene

– Ben più grave è la conclusione (sbagliata) che popolazioni con diverse identità (linguistiche, culturali, religiose eccetera) non possano convivere pacificamente: basta una crisi politica come questa e qualcuno che soffi sul fuoco (da entrambe le parti) per distruggere secoli di convivenza cresciuta nella quotidianità

– Gli europei (tutti noi) non potranno fare politica internazionale finché non inizieranno a sentirsi un popolo con interessi comuni;  finché non la smetteranno di coccolare i mafiosi russi che investono da noi; e finché non rinunceranno ad andare a pietire, uno ad uno, il gas di Putin per continuare a surriscaldare le loro case

– Se non si capisce bene tutto questo fra qualche anno l’”influenza” di Putin arriverà ben oltre Trieste

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CONTARELLO, QUELLA VOLTA CHE NON HO RICONOSCIUTO LO SCENEGGIATORE DELL’OSCAR

contarelloOra che ha vinto l’Oscar con “La Grande Bellezza” mi torna in mente un aneddoto personale sui miei rapporti con lo sceneggiatore padovano Umberto Contarello. SorrentinoServillo

 

 

 

 

Con lui abbiamo fatto politica “insieme” negli anni ’70. Per la precisione abbiamo organizzato un convegno nazionale contro la dislocazione dei missili della Nato in Italia, l’ultima iniziativa che ha visto insieme tutte le molteplici sigle della sinistra di allora, dai giovani socialdemocratici fino ai marxisti-leninisti, passando per la Fgsi, la Fgci (i giovani comunisti, di cui Contarello era il segretario padovano), il Manifesto, Lotta Continua e quant’altro. Furono necessarie decine di riunioni in sale fumose e tapezzate di manifesti per mettere a punto una scaletta e un’introduzione condivisa, che toccò a me leggere, in apertura dei lavori alla Gran Guardia. Il convegno andò bene, i missili furono… dislocati lo stesso, poi arrivò il Settantasette, col Movimento e l’autonomia, ognuno andò per la sua strada e ci perdemmo di vista.

Anni dopo, nel 2005,  mi ritrovai a intervistare per il Gazzettino il vincitore del Premio Berto di Mogliano, per il romanzo opera prima “Una questione di cuore”. Era Contarello, naturalmente; rimanemmo a chiacchierare per un paio d’ore in un bar di Padova (sotto l’intervista) ma nessuno dei due riconobbe l’altro…
Scoprii che il Contarello scrittore era il Contarello militante solo qualche anno fa, parlando con Filiberto Zovico, che era stato suo successore alla segreteria della Fgci. Sapete come va: io che chiedo “Come si chiamava quello che c’era prima di te, Contarello mi pare, dov’è finito?” E Zovico che risponde: “E’ a Roma, scrive per il cinema”, ed io che vengo investito dalla rivelazione, come un novello Proust con le madeleine (scusater il paragone).
C’è anche un sottofinale banalotto: quando mi sono iscritto a Facebook l’ho cercato e gli ho mandato un messaggio, ma non mi ha risposto. Credete che lo farà adesso, che ha vinto l’Oscar?

COMUNQUE ECCO L’INTERVISTA

Pensate alla felicità, non solo all’economia. Intervista a Umberto Contarello
di Sergio Frigo, tratta da “Il Gazzettino”, 8 giugno 2005

Contarello2Abbiamo visto nascere e svilupparsi, in esclusiva, l’idea di un film sul Veneto. Un film impietoso ma amorevole, sincero fino all’autolesionismo, sobrio ma compassionevole. che forse non si farà mai, e sarebbe davvero un peccato. Ne è autore Umberto Contarello, padovano, uno dei più apprezzati sceneggiatori italiani (collaborazioni con Salvatores, Mazzacurati, Piccioni, Amelio, Placido). Nel baretto a pochi metri dalla sua vecchia casa padovana Contarello dà l’idea di uno che non se n’è mai andato. Massiccio, l’aria stropicciata – barba e capelli iugrigiti, voce roca, camicia aperta e scarpe da mare senza calze sembra un qualsiasi clientetipo che in un qualsiasi lunedì mattina stia cercando di venire a patti col lavoro appena ripreso. Ma poi si mette a parlare di questo nostro Veneto e avverti immediatamente la serena vicinanza/lontananza (sono 25 anni che è a Roma) con cui ama, odia, disseziona questa terra e i suoi abitanti. E ti sorprende per contrasto col suo aspetto la grande finezza del raccoglitore di storie, dell’organizzatore di parole, dell’inventore di immagini.
A Mogliano l’hanno appena premiato con il Berto per la miglior opera prima per Una questione di cuore, veloce ma intenso romanzo in cui ricostruisce il decorso post infarto, difficile ma emotivamente proficuo, di un uomo che ha la sua età (47 anni), la sua stazza, fa il suo stesso lavoro, e porta un nome simile al suo, Alberto. “Figlio non certo all’altezza dei maestri”, si definisce Contarello riferendosi proprio a Berto, e a Parise, Comisso, Rigoni Stern, Meneghello, per la vocazione, che ad essi lo accomuna, a guardare dentro le persone, per raccontarle. Ma eccolo all’opera, silenzio, azione, ciak, si gira…
“Torno sempre volentieri nel Veneto – inizia soft -e spesso ho pensato che sarebbe proprio interessante descrivere come le persone abitano questi luoghi, luoghi che conservano un incanto smarrito, un mistero intatto ma anche spersonalizzato. La mia sensazione pur con i limiti delle generalizzazioni – è che qui tutti siano preda di una grande insicurezza, per un futuro che non si riesce ad afferrare. Il mistero è come ciò possa avvenire in un luogo che, almeno apparentemente, offre un sistema di sicurezze evidenti, benessere, bellezza: ma sembra proprio che chi finora ha impostato la sua vita su un lucido progetto di scalata sociale e consolidamento economico tema di poter perdere tutto; e che chi invece ha qualche anno di meno abbia il timore non tanto di restare tagliato fuori dalle acquisizioni economiche, quanto da un sistema di relazioni, da un’idea di centralità, che si senta bloccato in una periferia priva di orizzonti di uscita”.
Contarello dice di captare una “sorda e cupa infelicità opaca che si gonfia di livore, ripiegata su se stessa con un senso di sconfitta”, che nasce “dall’incapacità di immaginare un’idea semplice e collettiva di stare al mondo”. Ma non è un’ analisi sociologica la sua, e infatti ecco che arrivano le immagini. “In queste nostre strane città intravedo le persone dentro le auto e mi sembra di percepire il negozio da cui sono uscite, o in cui stanno andando, immagino i prodotti che hanno appena comprato per lenire la loro infelicità, o quelli che stanno sognando, o l’infelicità che provano pensando che non potranno permetterseli Vedo donne truccate con maschere sgomente, gelate dentro macchine ncre dai vetri oscurati, come auto di rappresentanza di non so quali paesi”.
Una forma diffusa di disperazione?
No, no, questa terra non ne è capace. È qualcosa di più pericoloso, un’infelicità solitaria, maturata non dentro delle ca. se, ma delle casematte. Come quelle, bellissime, della Marca, che improvvisamente si trasformano da luoghi nei quali si mangia, si dorme, si vive, in rifugi in cui ci si ripara da qualcosa, mentre fuori cresce un silemio serale da bomba inesplosa.
Ma come raccontare tutto questo? Non sembra più il tempo di Signore e signori.
Da quel film sembrano passate ere geologiche. Anche l’ironia, che era uno dei grandi patrimoni di questa terra, sembra svaporare. Non si ride più e si racconta ancora meno. Nei nostri bar, luoghi dell’esibizione e della comunicazione – si parla sempre più spesso con rabbia, e anche quando si scherza, è sempre contro qualcuno.
Ma Roma, il resto d’Italia, sono davvero diverse?
Forse vivendoci non sono in grado di definirne i contorni, ma Roma è molto migliorata in questi anni. Ma di fondo c’è che i romani sono abituati da sempre a vivere nella precarietà, mentre noi veneti no, perche veniamo dal mondo contadino, e decliniamo la precarietà – tipica della nostra epoca – in una forma scura.
Da quale angolazione allora racconterebbe questa terra?
Mah, io vengo a Padova e non capisco cosa scrivono i giornali: sì parla solo dì economia, viabilità, intermodalità. A me piacerebbe invece che in una terra che ha fatto uno sforzo titanico per dare forme visìbili alla felicità – ci si interrogasse su cos’è la felicità, adesso, per le persone. A questo dovrebbe servire la cultura, non solo conservare dei begli oggetti, ma ragionare su cosa significa vivere in un certo posto. Purtroppo chi parla di queste cose non viene più ascoltato, e c’è di peggio.
Dica.
Senza nulla togliere alla persona, trovo assurdo che a occuparsi di cultura, in una Regione come questa, sia il presidente stesso, come se la cultura fosse qualcosa che si può “aggìungere” ad una giornata che immagino già occupatissima .
Ma Galan dice di averlo fatto proprio come scelta strategica.
Se una cosa la si ritiene strategica, bisogna costruire tutte le condizioni perche lo sia effettivamente. Qui temo invece che si pensi più che a fare cultura, ad un’operazione, peraltro importante, di valorizzazione delle cose bellissime che abbiamo. Ma questa è un’idea da ente del turismo. Attenzione: una comunità che si disinteressa troppo a lungo di queste cose, è destinata al declino.

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COSA SUCCEDE IN MONTAGNA?

foto (76)Alcune immagini raccolte ieri in val Zoldana, in una splendida (finalmente!) giornata di sole. L’altra notte è scesa un’altra botta di neve, che ha fortunatamente coperto di bianco quella rosa (“arricchita” di sabbia africana) dei giorni precedenti. Ne affiorano ancora gli strati, come potete vedere in qualche immagine.

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La neve è tanta, ma cala rapidamente a causa delle temperature elevate di giorno; di notte fortunatamente gela, e questo consolida gli strati, alleggerendo un po’ il rischio valanghe.

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Ecco tre immagini di una malga letteralmente sommersa dalla neve.

 

 

 

 

 

 

 

Comunque attorno a quota mille siamo in pieno disgelo, e l’acqua esce con grande forza da qualsiasi anfratto, creando centinaia di fontane, cascate, laghetti.

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Il riscaldamento si fa sentire, eccome! Nel mio giardino i narcisi sono pronti a sbocciare, e siamo solo il 24 febbraio.
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RENZI E GLI ALTRI. INTANTO DOVRO’ RIVEDERE LE MIE IDEE SUI BOY SCOUT…

RenziboyscoutQualche considerazione sparsa sul blitz di Renzi, l’addio di Letta e l’atteggiamento del Pd, che non ho letto in giro in questi giorni.

1 – Dopo quanto accaduto, e le sue modalità, devo rivedere in profondità le mie idee sui boy scout

2 – La liquidazione di Letta ha avuto un tocco di ferocia che non mi sembra molto democristiano, come invece molti commentatori hanno sostenuto. E la brutalità in politica non paga, almeno sul lungo termine

3 – Renzi ha conquistato il partito, ma non ha convinto. Ricorda il Mulè, il mutante che  doveva distruggere la Fondazione nella Trilogia di Azimov, grazie alla sua capacità di plagiare gli interlocutori. Non finì bene, spero che a Renzi vada meglio (non per lui, per tutti noi)

4 – Più che una visione sul futuro (quale?) Renzi mostra un atteggiamento “performante” di stampo futurista: ma il futurismo è passato…

5 – Letta esce ammaccato, ma a testa alta. Aver governato in una situazione del genere in questi mesi è stato (anche) un atto di generosità nei confronti del suo partito (e forse del paese). I complimenti di Obama non sono rituali, e confermano la considerazione di cui gode a livello internazionale, consacrandolo come riserva futura delle istituzioni

6 – Bersani, Prodi, Cuperlo, Letta… Si allunga la lista delle “brave persone” che i democratici prima fanno fuori e poi rimpiangono. Questo non è più semplice masochismo, denota un’inequivocabile contraddizione fra quello che si è (come partito, come persone) e quello che si vorrebbe essere.

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LETTA-RENZI, UNA STAFFETTA O UNA FAIDA?

RenziLettaTe ne devi andare…
RenziLetta2(L
a strada è di là)

 

Dato che ultimamente mi sono un po’ distratto dalla politica, qualcuno mi spiega il perché dell’eventuale staffetta tra Letta e Renzi alla guida del governo? Ho capito che il governo ha le pile scariche, come si dice, ma per quale motivo?

Cerchiamo di esplicitare un po’: è colpa del governo, è colpa di Letta, o è colpa della situazione generale (politica ed economica) in cui esso si trova ad operare?

COS’E’ CAMBIATO DA APRILE?

Partiamo dal fondo: è cambiata la situazione generale in cui questo governo spurio è stato partorito, dieci mesi fa? Se ricordate, ad aprile Letta accettò con senso di responsabilità il sacrificio (okkei, potete sorridere…) di presiedere un governo che non avrebbe voluto (come ben pochi fra gli italiani, del resto) e se ne sobbarcò (seriamente) l’impopolarità. A dieci mesi di distanza la situazione finanziaria dello Stato mi sembra migliorata, quella economica del Paese reale sostanzialmente no: colpa della contingenza mondiale, colpa del governo o colpa (anche) di un Paese bloccato da mille veti e da mille interessi contrapposti? Per quanto riguarda la politica siamo passati dalle larghe alle strette intese, liberandoci dai condizionamenti di Berlusconi ma non da quelle del berlusconismo, sia pure “diversamente” inteso (Alfano & c.); i voti per costruire una maggioranza alternativa però continuano a non esserci, a meno che non saltino sul carro un bel po’ di grillini dissidenti. Da ultimo c’è un nuovo segretario del Pd e c’è e non c’è una nuova legge elettorale, e soprattutto manca la riforma del Senato, senza la quale rischiamo di bissare, in caso di voto, l’impasse odierno.

LA COLPA DELLA STASI: DEL GOVERNO, DI LETTA O…?

Nel quadro delineato a Letta erano stati concessi 18 mesi di tempo per avviare a soluzione alcuni problemi. Se ora si decide di cambiare, pur essendo rimasto il quadro economico-politico sostanzialmente lo stesso, qualcuno avrebbe la bontà di spiegarci perché? Si ritiene che sia stata la compagine del governo a non funzionare? Oppure è proprio il premier ad essersi dimostrato incapace? E quanto hanno contato in questa stasi i condizionamenti del Pd e delle altre forze politiche?

LA RISCHIOSA SFIDA DI RENZI

Se a determinare il cambiamento sarà l’unico elemento nuovo intervenuto nel quadro politico negli ultimi tempi, cioè l’arrivo sulla scena di un nuovo segretario del Pd, dobbiamo dedurne che lui ritiene di essere in grado – assumendosi la responsabilità del governo senza un’investitura popolare e dopo averlo ripetutamente escluso – di superare tutti i condizionamenti economico-politici sopra elencati, che hanno bloccato il suo predecessore? Oppure è tutta un’ennesima montatura dei media, parossisticamente alla ricerca di novità da bruciare sull’altare della notizia?

Da ultimo: come spiegare agli italiani che non si tratta dell’ennesima faida interna fra i (nuovi) padroni del Pd?

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