Nostalgia del bel tempo andato, aspra denuncia delle miserie a cui sono condannati i più deboli, irrisione dei luoghi comuni (dalla religiosità al rispetto dell’autorità) di cui siamo (o forse no?) felicemente schiavi: tutto questo e di più c’è nell’opera degli scrittori e dei poeti del Veneto e del Friuli, di cui domattina a Pordenonelegge (Spazio Itasincontra, ore 11) presentiamo le 11 nuove antologie pubblicate dalla Biblioteca dell’Immagine.
Ecco qualche brano sparso, per ognuna delle province del Veneto
BELLUNO
PATRIZIA VALDUGA
da Corsia degli incurabili
Nuvole azzurre… nuvole di rosa…
e poi nuvole bianche… come neve…
e ogni cosa che torna… in ogni cosa…
Oh! tornare a Belluno tra i miei monti…
e cogliere le viole e i bucaneve…
quanta neve per me… quanti tramonti…
e sotto a tanto azzurro e tanto bianco
la terra lieve… come sarà lieve…
e il cielo bianco come neve… bianco…
Porto tutti i tramonti tra i miei monti…
ogni specie di cieli sulla terra,
ogni divino anello d’orizzonti…
PADOVA
DIEGO VALERI
Città materna
Orto suburbano
Siamo nel bel mezzo di gennaio, e nell’aria c’è già un sole, un respiro, un errabondo odore di primavera.
Si sente dire che sui colli i mandorli cominciano a fiorire; ma qui, nell’orto suburbano che consola la mia prigionia con la sua vista serena, non si scorge ancora segno di vita.
Dietro la siepe di bosso e il filare di girasoli rinsecchiti e pencolanti, l’arida terra porta soltanto qualche ciuffo di erba pallida tra mucchi di grigia sterpaglia. I ciliegi disegnano netto nel cielo l’arabesco dei loro rami nerastri e gropponi. Più oltre, la vita a pergola lascia pendere qualche esile tralcio, nudo chiaro e liscio, dall’esile architettura di pali che la sostiene.
Eppure la precoce primavera è arrivata anche qua.
ROVIGO
JESSIE MERITON WHITE MARIO
da: Le miserie di Napoli, 1877
San Clemente in Venezia
Ancora più triste mi riescì una visita al Manicomio femminile di San Clemente di Venezia, ove il chiaro filantropo e medico primario di quel luogo di dolore mi disse e mi provò con i registri, che mentre fra le pazze, dodici sole furono colpite per vizii, sopra più di cinquecento, due terzi erano alienate per pellagra, cioè per essere esclusivamente, e spesso insufficientemente, nutrite di polenta e d’acqua non sempre sana e pura. E chi oggimai ignora che le donne venete lavorano per lo meno altrettanto, e spesso più degli uomini? C’è difatti una duna o isoletta – Sottomarina – che ho visitata, ove gli uomini fumano, mangiano, bevono, dormono e vestono panni, e le donne, oltre a tutte le faccende di casa, remigano e lavorano la terra, per poi finire all’ospedale dei pazzi, o sotto il Ponte dei Sospiri. Mi convinsi da ultimo che in nessun paese della terra il povero è più laborioso e più miserabile dell’Italiano.
TREVISO
ERNESTO CALZAVARA
I pavéri
Quando a la luna le done
le séra su i scuri
e se vede le ombre
dei gati sui muri
– vien zó a rebaltón la note sui copi
mi me par de morir pian pian
de stuarme anca mi col sol
par impizar sti ciari falsi,
sti pavéri, che me tien in vita
cussì… par gnente
in mezo a tuta sta zente.
I lucignoli. Quando alla luna le donne/chiudono le finestre/e si vedono le ombre/dei gatti sui muri/– viene giù a rotoloni la notte sulle tegole/mi sembra di morire pian piano/di spegnermi anch’io col sole/per accendere questi lumi falsi,/questi lucignoli, che mi tengono in vita/così per niente/in mezzo a tutta questa gente.
da Poesie dialettali
VENEZIA
ROMANO PASCUTTO
La feliçità
Çerchemo la feliçità
in zorni straordenari:
’na pataca che no riva,
’na femena che manca,
’na staion che sbalia.
Cussì, da ’na verta
a ’st’altra, consumemo
el tempo a morsegoni
come el pan co l’è poc.
Po’ da veci se acorzemo
che la feliçità spetada
no gera altro che viver,
cussì, ogni zorno un toc.
La felicità
Cerchiamo la felicità / in giorni straordinari: / una medaglia che non arriva, / una donna che manca, / una stagione che sbaglia. / Così, da una primavera / all’altra, consumiamo / il nostro tempo a morsi / come sul pane scarso. / Poi da vecchi scopriamo / che la felicità attesa / non era altro che vivere, / così, ogni giorno un poco.
VERONA
STEFANO REGGIANI
Il grido della fé da La pigrizia e l’estasi 2000
Un giorno, saranno alcuni anni, è tornato nella sua città per una cena di ex studenti. Tutti intorno alla buona tavola del ristorante casalingo, la sala riservata, i camerieri ammiccanti, un caldo appiccicoso, l’odore del baccalà, la polenta insufflata di vapori. Parlavano i commensali, con l’alito frantumato dai rutti eminenti, di donne, di ragazze oramai invecchiate, di ex puttanelle, di meretrici strettamente osservanti, di compagne tenacemente vergini per l’abuso di amplessi innaturali, di nostalgia verminosa del sesso scolastico, turpi pensieri e care amiche di allora. E d’un tratto un convitato le nominò una ad una quelle ninfe liceali, e ad ogni nome era un brontolio offeso, un agitar di mani per scacciare via i timidi fantasmi. E colui allora a chiedere esasperato:
«Non volete la Carla, non volete la Luigina o la Paola. Chi volete voi?». Ed uno a capotavola depose il tovagliolo e s’illuminò cantando a gola vibrante: “Noi vogliam Dio ch’è nostro padre, noi vogliam Dio ch’è nostro re … ».
Non aveva finito il primo verso che tutti lo seguivano ad altissima voce, e il canto proseguì tra singulti e lacrime di fatica davanti alla scena dei bicchieri semivuoti e dei piatti sperduti. Cantavano con abbandono, e si sentiva fra una nota e l’altra, sguaiate, un timbro autentico, una fame spirituale così fonda che i camerieri sulla soglia guardavano intimiditi con un sorriso dubitoso, non sapendo se inginocchiarsi o correre a interrompere quel rito con una distribuzione di vino.
VICENZA
LUIGI MENEGHELLO
da Libera nos a malo
Le cose andavano così: c’era il mondo della lingua, delle convenzioni, degli Arditi, delle Creole, di Perbenito Mosulini, dei Vibralani; e c’era il mondo del dialetto, quello della realtà pratica, dei bisogni fisiologici, delle cose grossolane. Nel prima sventolavano le bandiere, e la Ramona brillava come il sole d’or: era una specie di pageant, creduta e non creduta. L’altro mondo era certo, e bastava contrapporli questi due mondi, perchè scoppiasse il riso. Ridevamo recitando con le donne di servizio:
Bianco rosso e verde
color delle tre merde
color dei panezèi
la caca dei putèi.
Questa però non era sentita come critica alla Bandiera della Patria: che c’entra? La bandiera si esponeva sul poggiuolo della zia Lena, e si descriveva nei Pensierini a scuola; le tre merde erano allineate in orto sotto la mura del Conte, lucide come di vernice, sorvolate dai mosconi; sopraggiungeva la Colomba e ci stendeva sopra il pannolino umido che soffocava i colori in una tabe giallastra.
Bianco rosso e verde era soltanto una frase in lingua; il resto era il suo counterpart in dialetto. C’era però un contenuto polemico in tutto questo: si sentiva che il dialetto dà accesso immediato e quasi automatico a una sfera della realtà che per qualche motivo gli adulti volevano mettere in parentesi. Si sentiva anche che in questo gli adulti facevano la commedia, e si ammirava il modello (purtroppo inimitabile) del piccolo anonimo popolano che aveva radicalizzato la protesta fino a investire i rapporti fondamentali dell’uomo, Famiglia e Religione.
Aveva subíto fremendo certe imposizioni dei genitori: poi l’intervento gratuito dell’autorità ecclesiastica lo esasperava del tutto. Di questa esperienza ci ha lasciato lui stesso un conciso documento.
Me pare me mare
me manda cagare
el prete me vede
mi taco scoréde.
Era evidentemente molto arrabbiato: ma è impensabile che a questo precorritore della gioventù bruciata, nell’atto di manifestare il suo sentimento, non venisse anche un po’ da ridere.
Una risposta a IL NORDEST RACCONTATO DAI SUOI SCRITTORI