E SE NON ARRIVA IL FEDERALISMO? La grande paura della Lega. INCHIESTA/ Francesco Jori

Pontida.jpgInviati ed osservatori nei giorni scorsi hanno descritto un popolo leghista, a Pontida, frustrato e impaziente a causa dei ritardi nell’attuazione del federalismo, e soprattutto preoccupato per le voci ricorrenti che danno in pericoloso bilico la “madre” di tutte le riforme: quella su cui i governatori del Carroccio, come Luca Zaia, hanno puntato tutte le speranze di poter dare attuazione alle promesse distribuite a piene mani prima delle elezioni.
E se davvero il federalismo slitterà alle calende greche, oppure se si dovesse ridurre a un cambiamento di facciata, come paventa Luca Ricolfi nel suo libro “Il sacco del Nord”, a causa delle resistenze delle altre regioni del Paese a mollare la presa sui 50 milioni di euro che ricevono annualmente dal Nord?
Cosa accadrebbe nelle nostre regioni, come reagirebbe la società, e come, soprattutto, il popolo leghista, nutrito in questi anni di promesse mirabolanti?
L’abbiamo chiesto ad alcuni analisti politici, intellettuali, testimonial, partendo da Francesco Jori, amico e collega di lunga data, nonchè autore del libro “Dalla Liga alla Lega” (Ed. Marsilio).

 

 

«Il problema si pone, ma è meno contingente di quanto appare, perchè il federalismo dovrebbe andare a regime jori.jpgnel 2016, quindi la Lega può avere buon gioco a motivare i ritardi. Il passaggio decisivo comunque ci sarà tra pochi giorni, quando saranno presentati i conti su cui determinare i costi standard, base di partenza del federalismo fiscale, e c’è fortemente da dubitare che la Lega riesca a portare a casa il risultato. E stiamo ancora parlando di federalismo fiscale, poi tocca a quello istituzionale, e la bagarre sarà altrettanto forte, come ha fatto intuite lo scontro sull’abolizione di alcune Province».

PAGHEREMO DI PIÙ PER AVERE MENO

Nel dettaglio, cosa accadrà?
«Lo scenario più prevedibile è che i cittadini italiani avranno gli stessi servizi con costi maggiori e più burocrazia. Stabilire costi standard vuol dire infatti costringere alcune regioni a spendere meno e ad avere meno di oggi dallo Stato, quando ben cinque di loro, ad esempio, sono già commissariate per gli sfondamenti dei costi sanitari».
E dunque cosa succederà alla Lega se non porterà a casa dei risultati tangibili?
«Ogni ragionamento sulla Lega deve tener conto di un fatto che nessuno considera, cioè che ha due elettorati fra loro in rotta di collisione: uno è quello fidelizzato, che la voterà comunque, e uno è quello aggiuntivo, che la vota di volta in volta a seconda dei programmi, e che è molto consistente, se consideriamo che solo quattro anni fa la Lega era scesa all’11%, meno di un terzo di oggi. Se il primo elettorato è pro-secessione, il secondo non ne vuole sapere».
Domenica a Pontida in effetti sono riecheggiati dai militanti e anche da qualche dirigente (Castelli) gli appelli alla secessione…
«Di fronte a un rilancio di quella parola d’ordine l’elettorato aggiuntivo girerebbe le spalle alla Lega, e andrebbe a votare qualcos’altro o si rifugerebbe nell’astensione. Ma c’è un’altra considerazione: il Carroccio, più di ogni altro partito, si identifica totalmente con il leader, ma se per qualche motivo il leader dovesse venire a mancare il rischio diventerebbe la disintegrazione politica del movimento».

TRA VIOLENZA SOCIALE E SECESSIONE SILENZIOSA

E le aspettative suscitate fin qui?
«Si potrebbero avviare delle derive imprevedibili, dall’ulteriore potenziamento dell’astensionismo, alla crescita di movimenti alla Grillo, anche ad un’esplosione di forme violente di antagonismo da parte di alcune frange disilluse e frustrate. In ogni caso rimarrebbe un leghismo senza Lega. Lo scenario potrebbe essere quello proposto da Illy e Romano, cioè una secessione silenziosa, nei fatti».
Cioè?
«Ad esempio un potenziamento delle delocalizzazioni produttive da parte di certi settori imprenditoriali. Illy diceva che si può votare anche con i piedi, spostandosi in Slovenia o in Austria. Questo processo riceverebbe un forte potenziamento dall’eventuale divisione, in seguito alla crisi, dell’area dell’Euro, tra un nord economicamente più forte, che inevitabilmente si trascinerebbe dietro il Settentrione italiano, e un’area meridionale e orientale più debole, che risucchierebbe il nostro sud. A quel punto la rottura dell’unità nazionale sarebbe nei fatti».

UNA SFIDA PER LA SINISTRA

E la sinistra che ruolo potrebbe giocare in questo scenario?
«Dovrebbe riuscire a costruire un vero e serio partito riformista, capace di essere un interlocutore credibile delle domande sociali, ma mi sembra un’ipotesi remota».
Perchè?
«Il problema principale è il ceto politico che non si schioda dal potere. In Gran Bretagna ora comandano i quarantenni, in Australia e in Finlandia le donne, da noi abbiamo la classe politica più vecchia del mondo. Ma poi manca, purtroppo, un progetto per il governo del Paese e un patrimonio di valori condivisi, dei fondamenti comuni, che è quello che gli altri paesi hanno. In Italia non c’è mai stata una forte cultura laica trasversale, e quindi al posto di partiti abbiamo delle Chiese, che si scontrano senza mai riuscire a incontrarsi su nulla».

E SE NON ARRIVA IL FEDERALISMO? La grande paura della Lega. INCHIESTA/ Francesco Joriultima modifica: 2010-06-25T00:34:00+02:00da sergiofrigo
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