GIGI COPIELLO: “QUELLO CHE IO, SINDACALISTA PER UNA VITA, HO IMPARATO DEL LAVORO”

lavoro, sindacato, Gigi Copiello, Nordest, storia, lotte, Cisl, Cgil, Metalmeccanici, licenziamentiMentre tutti parliamo di lavoro, arriva in libreria il libro di un sindacalista sui generis che al lavoro – a com’era e a com’è diventato, a chi lo ha subito e a chi se lo è reinventato – dedica un’elegia e insieme una serrata analisi, di taglio personalissimo. Ne è autore il 62enne vicentino di Velo d’Astico Gigi Copiello, che lo scorso anno ha concluso la sua attività dimettendosi dalla segreteria della Cisl di Vicenza, dopo essere stato a lungo il leader regionale dei metalmeccanici della FIm.

 Il libro – “Bruno da Cittadella, dottore in malta” (Ed. Marsilio, € 14) – restituisce in pieno il carattere schietto e il punto di vista eccentrico, e proprio per questo sempre stimolante, dell’autore, che lo ha fatto apprezzare (ma anche detestare) in tutti gli ambienti coi quali è venuto in contatto. Non è il suo primo libro, c’era stato anni fa il bel “Manifesto per la metropoli Nordest” (e almeno un altro, di filosofia, ce l’ha nel cassetto), ma questo  ha una marcia in più nell’adesione piena e al tempo stesso consapevole al mondo del lavoro a cui egli ha dedicato tutta la sua vita, e nell’amore incondizionato (ma non cieco) per le persone che ne sono protagoniste.

UN AFFRESCO AFFETTUOSO E IRONICO SUI NOSTRI ULTIMI 50 ANNI

      In queste “storie di operai, imprenditori e artisti” c’è la sua storia, ma soprattutto c’è la storia del Nordest, di questi ultimi 50 anni che ci hanno rivoltati come guanti. E ci sono le sue letture onnivore – da Marx a don Milani, da Meneghello a Diamanti – che gli hanno fornito gli strumenti per dipingere un affresco imperdibile, commovente ed esilarante, sospeso fra antropologia ed economia, ma sempre intriso di quella sapienza che si affina coi libri ma sgorga dal contatto diretto con le persone.

Dopo aver vissuto da testimone e da protagonista il grande cambiamento, il messaggio di Copiello è semplice: “Una volta il lavoro prometteva pane a chi aveva fame, sicurezza a chi stava nell’incertezza, libertà a chi era servo, diritti a chi aveva solo doveri. Oggi quel mondo è cambiato. Siamo arrivati alla fine del lavoro “dipendente”, “esecutivo”. Che sia in fabbrica, in ufficio o in bottega il lavoro dovrà tornare ad avere valore. Essere lavoro “creativo”. Solo così l’uomo potrà intendersi davvero libero.

Ecco qualche brano dal libro.

 

1968: QUANDO I PADRI ORDINARONO AI FIGLI DI FARSI STRADA NELLA VITA

      Fu un ordine, perché allora funzionava così. E fu un ordine di mobilitazione generale. Il contadino volle il figlio operaio, l’operaio volle il figlio impiegato, l’impiego volle il figlio dottore.

      E l’ordine fu eseguito. Chi furono se non i contadini del nord e i braccianti del sud a riempire le linee di montaggio dell’auto e dell’elettrodomestico? E non fummo noi, figli della piccola borghesia impiegatizia e bottegaia, a dare il via all’università di massa?

      I due riferimenti dicono quanto “disordine” provocò in realtà quell’ordine paterno. Il ’68 studentesco e l’autunno caldo operaio hanno origine nelle speranze dei figli comandante dai padri.

QUANDO A BREGANZE LE DONNE NON LAVORAVANO

      (…) Se andavi al bar, a Breganze (…) poteva toccarti di avere il conto pagato. Era entrato il Piero o il Tita Laverda, era andato dritto al banco, aveva preso un caffè e pagato il conto di tutti. Ma la mattina dopo, in reparto, il capo ti guardava negli occhi e non ti mollava un minuto (…) E niente donne, in Laverda. Le poche, in grembiule nero, a far le pulizie, erano vedove. Le donne dovevano stare a casa. Neppure in ufficio. (…) Tutti allora si sentivano fortunati. Ma anche un po’ bloccati (…) Ma…

      Tullio Campagnolo aveva per le mani una bicicletta. Aveva un secolo, la bicicletta. Era vecchia, la bicicletta. Ma alla bicicletta mancava ancora qualcosa. Tullio Campagnolo lo capì. La bicicletta aveva bisogno del cambio. Anche la bicicletta. Era arrivata l’ora del cambio.

(…) Torniamo a Breganze. Molte cose erano cambiate. La Laverda assumeva a centinaia (…) Una fabbrica di confezioni aveva assunto centinaia e centinaia di donne e ragazze. Questa era una rivoluzione. Prima le donne stavano a casa. Non erano più le stesse donne. E neppure le stesse famiglie. Ci voleva poco a trovarsi con quattro o cinque salari, che diventavano sei o sette con gli straordinari, nella stessa famiglia.

IL PADRONE CHE LICENZIAVA. E QUELLO CHE HA CHIUSO

      (…) Ambrogio l’ho rivisto dopo 35 anni. Gli ho ricordato quel pomeriggio, noi a picchettare la sua fabbrica, lui bloccato sotto il sole, dentro l’auto, in mezzo alla statale, per due belle ore.

      Ambrogio licenziava, quel giorno. E noi si picchettava. Non ci siamo più visti, dopo d’allora, per 35 anni.

      Quel giorno, quel lontano giorno, avevo ragione io. Perché, cosa fa un sindacalista quando un padrone licenzia?

      Poi ha avuto ragione lui.

      Ha girato la fabbrica come un calzino. Di operai non ne ha più uno. Qui. Di operaie che stanno alle macchine e di macchine che fanno senza operai, per tutto questo si rivolge alla Cina o chi sa dove. Qui si lavora sui “marchi”. Qui vengono le “firme” che stanno a Parigi, Milano, Londra e chi sa dove. E qui stanno centinaia di persone che gli danno mente e mano d’opera.

      Un altro padrone, invece, l’ho frequentato per 35 anni (…) Lui e io non ci siamo mai scontrati. Lui non ha mai cambiato organizzazione del lavoro. Lui non ho mai decentrato. Lui non ha mai licenziato. Io non l’ho mai picchettato.

      Ma non è rimasto più niente e nessuno. Le piante sono diventate padrone dello spaccio, degli uffici e dei capannoni.

 

GIGI COPIELLO: “QUELLO CHE IO, SINDACALISTA PER UNA VITA, HO IMPARATO DEL LAVORO”ultima modifica: 2012-03-23T16:34:00+01:00da sergiofrigo
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Una risposta a GIGI COPIELLO: “QUELLO CHE IO, SINDACALISTA PER UNA VITA, HO IMPARATO DEL LAVORO”

  1. Você sabe como posso encontrar Gigi Copiello? Me passa o telefone de contato dele?

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