Fernando Bandini, scomparso oggi a Vicenza a 82 anni, è stato una singolare figura di studioso, letterato e poeta sempre in prima fila nella militanza culturale, civile e politica, che in lui erano tutt’uno.
Docente di stilistica e metrica nelle università di Padova e di Ginevra, fine commentatore di Leopardi e dei poeti del Novecento, scriveva (e vinceva premi internazionali importanti) anche in latino, oltre che in italiano e in veneto, rileggendo nei suoi versi limpidissimi le banalità o le tristezze del presente dentro un rigoroso percorso forgiato dentro le lezioni della classicità. L’erudizione sfumava però, senza appesantire i suoi versi, nell’amore esigente che portava per la sua città (Vicenza, ribattezzata anche Azneciv), e nell’ironia e nella mitezza del suo carattere.
Nei giorni scorsi aspettavo per telefonargli gli auguri di Natale l’arrivo della sua preziosa plaquette che mi spediva ogni anno: la morte gli ha impedito purtroppo di onorare l’appuntamento…
Ciao Fernando, buon viaggio verso il cielo dei poeti.
Qui sotto due frammenti da “Santi di Dicembre”, che l’amico Andrea Zanzotto aveva lodato per per “l’ acutezza rara degli equilibri raggiunti tra memoria e “memoria del futuro” (e’ un suo allusivo titolo), tra pacatezza di meditazione e continuo lumeggiare di immagini, per la “stranissima normalita’ ” dei suoi ritmi, delle sue prosodie, ma anche per la sua sperimentazione letteraria del tutto anomala”.
FANTASMA
Le dissi come allora: “Potresti essere mia figlia”.
E lei: “No, non andartene, aspetta! Solo un momento!
Prova a toccarmi il cuore”… Ma non un cuore
sentii dentro il suo petto:
solo il rombo di un vento
notturno, il cigolio della lanterna
appesa al parapetto
del ponte che il treno in quell’anno remoto
rallentando sfiorava.
Ti dico addio, fantasma della mia notte cava,
qui dai binari morti tra Noventa ed Ostiglia.
da DUE SANTI DI DICEMBRE
Cum brumae gelidum solstitium appetit
et Nonae posita sub nive dormiunt…
Quando si fa vicino il freddo solstizio d’inverno
e le None dormono sotto un tappeto di neve
torni desiderato dai bambini
dopo un’assenza così lunga.
Da poco l’autunno ha spogliato
gli alberi dalle foglie; a volte Borea aveva
imperversato nei campi e soffiava attraverso
i cupi granai senza posa.
La vasta calma invernale infine dominò la campagna.
Il frassino svettando alto sui tetti
libera a stento la testa dalle nevi di ieri
e guarda stupito il cielo fatto cadere
dalle tempeste. Ecco cammini per terra
e palle trombette tamburi trottole
bambine dalle palpebre agili
che ora chiudono ora aprono gli occhi
(possono anzi emettere una voce sottile)
trasporta il basto del tuo vecchio asino
perché dai tuoi doni i bambini imparino per tempo a conoscere
le liete contrade dalle quali provieni…
Ecco infine una poesia scelta da Giuseppe Mendicino per la recente mostra sui libri d’arte di Pino Guzzonato, ad Arcore lo scorso ottobre.
Fossero i miei versi quello che la neve
è per i bambini quando si svegliano
e guardano dal vetro sbalorditi la lieve
polvere caduta da lontani mondi.
Fossero i miei versi quello che l’acqua
di maggio è per i meli dalla foglia lustra
quello che il vento è per i pini (una frusta
verde che schiocca sulla selva e sul pascolo).
Quello che per i pesci guizzanti è la ghiotta
esca, per il tordo bottaccio
la trappola insidiosa fatto col setaccio
di casa ancora sporco di farina.
Capaci di catturare, capaci di ferire,
capaci di serbare un segno segreto,
un mistero d’origine nel lieto
turbinio delle cose che lievita la massa.
Fossero i miei versi quello che le stelle
sono per la notte quando esplodono in cielo
come larghi rododendri sullo stelo
d’un sospiro che veglia alle finestre.
Fossero i miei versi di bella fattura
ma nutriti di umana realtà.
Fossero i miei versi come la libertà
aria della lotta e pane del riposo”.
E per ultimo un pensiero affettuoso a Luisa, a cui Fernando aveva dedicato questi versi:
CONSOLATIO AD UXOREM 2
La casa di campagna che sognavi,
con un po’ di giardino per piantarvi
ortensie, i fiori che più ami, forse
belle di notte e rose,
appartiene alle cose
che certo non avremo. Ancora ne parliamo
nei giorni di fervore e in quelli ignavi
delle nostre stanchezze.
E adesso? Adesso andiamo
in cerca della casa per le strade
mai prima visitate di questo nostro autunno
che ha il profumo amarognolo dell’Ade.
Ma tutto è così caro!
Sfogli allora riviste con immagini
di azzurri lidi immobili e paesaggi,
pensi a viaggi in Islanda, in Cappadocia, a Cuba.
L’ultimo luogo che visiteremo
ci sembrerà di averlo già veduto,
“qui ci siamo già stati” ci diremo
con sgomento stupore.
Rintoccheranno ore
strane ed incongrue da una qualche torre,
lontana, ci sarà,
una colomba che da un sole diafano
come un’ambra di neve prende candore e tuba.
Ma il peculio di luce che abbiamo avuto in sorte,
quello è nostro, ci resterà negli occhi
sotto le palpebre.
Non ce lo ruba
la notte o l’ora della nostra morte.
da “Meridiano di Greenwich”