Muoiono a centinaia nel mare tra Africa e Sicilia, la crisi attanaglia le famiglie, i giovani non trovano lavoro e gli altri lo perdono, e lui ride.
E con lui ridono i suoi, e fanno diventare del bunga bunga una canzoncina da spiaggia, della trivialità una parola d’ordine con cui riconoscersi, e dello spregio delle istituzioni una modalità di governo, oltre che un violento sberleffo gettato in faccia a coloro che ancora insistono a crederci. Lui, loro, sono come quei giovani che ho visto qualche anno fa sul Ponte Carlo, a Praga, camminare tra la folla ruttando e bestemmiando, e ricordando a tutti “Siamo italiani, siamo italiani…”
Ieri ne ha scritto Ferdinando Camon (l’intervento sul suo sito www.ferdinandocamon.it): “Ormai pare che la porcheria sia un vanto. Una delle donnine dichiara apertamente di aspirare alla guida del Ministero degli Esteri. Siamo al fondo dell’abisso. Un giorno saranno assegnate tesi di laurea intitolate “Il bacio”, intendendo Andreotti, e “Il bunga bunga”, intendendo Berlusconi. A scrivere quelle tesi, i laureandi godranno fino allo sballo. A vivere quelle storie, noi, oggi, ci sentiamo umiliati e depressi, tutti, berlusconiani e anti. Anzi, più i berlusconiani. Perché non era questa la conclusione inevitabile del berlusconismo. Berlusconi aveva conquistato un consenso enorme, stracciando l’opposizione. Ma l’ha sprecato. Non è Bersani che distrugge Berlusconi, né D’Alema né Fassino. È l’uomo Berlusconi che distrugge il politico Berlusconi. Ne sta facendo strame”.
Ma un’analisi approfondita di cosa significhino quelle barzellette sconce, e del perchè i suoi ridano con lui, è contenuta nell’articolo di Francesco Merlo che vi propongo di seguito.
La mia solidarietà ai berlusconiani seri, quelli che provano ancora a fare politica, che con molto disagio cercano di tutelare la dignità del loro impegno pubblico. Ma anche un monito: se non vi dissociate, siete complici. Foglie di fico sulle vergogne del Capo.
CHI RIDE CON QUELLE BARZELLETTE
di FRANCESCO MERLO
Tutto è stato detto su Berlusconi che racconta barzellette, niente su quelli che ridono. Sono servi? Sono a libro a paga? Sono sdoppiati? E se fosse peggio? In pochi giorni Berlusconi si è esibito per due volte ben oltre la decenza delle sue solite storielle. E ogni volta, colpiti dalla scurrilità che è simpatia andata a male, dalla fuga nell’oscenità persino mimata che è la cifra degli spettacoli prolungati oltre la fine, abbiamo pensato che peggio di lui ci sono quelli che ridono. E ci sentiamo come Petrolini che reagiva così alla maleducazione di uno spettatore: “Non ce l’ho con lei, ma con quelli che le stanno accanto e non la buttano di sotto”.
A Lampedusa, per esempio, quando ha raccontato la barzelletta sulle italiane ha riso anche il presidente Lombardo che, bene o male, guida una giunta di centrosinistra. E, due giorni dopo, indossavano la fascia tricolore tutti quei sindaci che hanno applaudito la mela che (non) “sa di fica”.
Riguardate il filmato: non ce n’è uno che si mostri infelicemente rassegnato per quella degradazione istituzionale. E’ vero che gli applausi tradiscono qualcosa di nervoso ma tutti i sindaci ostentano un’aria compiaciuta e divertita per il premier che mortifica i luoghi e i riti dello Stato. Ovviamente sanno che la coprolalia non è compatibile con
l’aula, con i ruoli e con la bandiera. Ma è proprio per questo che ridono. Non per le battute da postribolo, ma per i toni da villano di osteria che declassano e offendono tutti quei simboli ai quali, faticosamente e insieme, siamo riusciti a ridare valore, a sinistra come a destra.
Eppure i sindaci del centrodestra sanno meglio di noialtri che queste non sono più le solite barzellette per distrarre gli italiani, ma sono i rumori grevi e le impudicizie della stagione ultima. Lo sanno dai sondaggi e dagli umori interni, dalla depressione di Bondi, dalla paziente disperazione di Bonaiuti, dal disprezzo sibilato di Tremonti, dalla rassegnazione al martirio di Gianni Letta che – come ha detto in privato – teme “la passerella delle quarantatré ragazze più dei pugnali di Cesare”; e ancora lo sanno dall’irascibilità incongrua di La Russa, dalle donne in fuga dai letti del potere, dal disgusto certificato di Mantovano che è il solo ad essersi veramente dimesso (ma, si sa, è un magistrato), dalla sofferenza trattenuta della Carfagna e della Prestigiacomo, dall’impotenza comica del ministro degli Esteri, dal fastidio persino di Dell’Utri che ha confessato a un amico: “Due cose non deve fare un uomo: innamorarsi ed ubriacarsi. E Silvio si è innamorato e si è ubriacato di se stesso”.
E tuttavia quelli ridono. Acclamano la barzelletta lunga e noiosa, approvano gioiosamente il turpiloquio. E noi, che li vediamo nel filmato, ci sentiamo imbarazzati al posto loro, e non più perché sappiamo che esistono un’altra comicità e un’altra educazione alla comicità: non è più questione di contrapporre risata a risata, Marziale alla barzelletta, e perciò forse dovremmo persino astenerci dal ridere, come nel Risorgimento, quando gli italiani rinunziavano a comprare il divertente “Figaro”, vale a dire rinunziavano a ridere per non sovvenzionare gli austriaci. Certo, ci sembrano eversivi i drammatici e goffi numeri da caserma di un premier che intanto si sta battendo contro “i magistrati golpisti” che lo processano, vuole cambiare la Costituzione, e non controlla più il Paese impoverito e assediato… E però al cuore della nostra pena e della nostra rabbia ci sono innanzitutto quelli che ridono. Sono loro che ci fanno gelare il sangue.
Consenso? Compiacimento servile? Identificazione? Di sicuro sono risate di complicità. Ma non ridono come gli uomini di Stalin che temevano per la sopravvivenza loro e delle loro famiglie. Questi davvero pensano che la mela dal “sapore di fica” sia meglio che leggere Kant. E dunque voluttuosamente degradano istituzioni e cultura che, tra gli sberleffi, lasciano alla sinistra. La mela da brevettare è la loro cifra ontologica, il loro marchio. Nel film “Nessuno mi può giudicare”, la prostituta Eva (Anna Foglietta) insegna la “vita” a Paola Cortellesi: “Se sono di destra, tu ridi, perché a loro piace tanto sembrare simpatici; se invece sono di sinistra, tu annuisci, perché loro hanno bisogno di sentirsi intelligenti”. Insomma, si parte da una barzelletta e si arriva lontano. Allo scadimento del gusto italiano e a quella commedia di Luciano Salce dove Ugo Tognazzi, imprenditore di mezza età, racconta una barzelletta ai suoi dipendenti ed è felice di vederli ridere di gusto. Poco dopo lo stesso Tognazzi si sentirà sprofondare quando, trascinato dalla “voglia matta” per una giovanissima Catherine Spaak, racconterà la stessa barzelletta a un gruppo di ragazzi che lo guarderanno come un marziano e gli sveleranno la mestizia che si porta dentro. Certo, quei ragazzi non erano suoi dipendenti ma persone libere. E però questo non basta.
Non basta il libro paga per spiegare i laudatori di Berlusconi, per capire perché ridono. Anzi, dargli dei servi pagati finisce con l’essere un complimento perché ammette uno scarto dentro di loro tra la coscienza e il contratto, certifica il professionismo cinico di chi, cambiando editore di riferimento, sarebbe pronto a cambiare musica. E invece non è sempre così. C’è infatti una identificazione con la cultura della mela al “sapore di fica”. Lo stesso Vittorio Sgarbi – è un esempio per tutti – gode nell’umiliare la specificità della sua stessa cultura, come quelli umiliano la fascia tricolore. Non per i soldi, ma perché c’è una voluttà nel profanare, nel farsi capre per rendere cavoli tutte le cose belle e profonde, tutte quelle meraviglie che da Caravaggio a Masaccio fanno la grandezza dell’arte.
Compiacciono Berlusconi dunque, e ridono ad ogni nuovo abbassamento di livello, a questo scadere dalle fogne ai pozzi neri. Ridono dinanzi a quella che gli studiosi di Storia Antica chiamerebbero Oclocrazia, ridono per massacrare un patrimonio anche se – come racconta Giorgio Manganelli nell”Encomio del tiranno – presto saranno loro, quelli che ridono, a farlo fuori con uno sbadiglio.
LA REPUBBLICA 5 aprile