Recensione al mio libro “Caro Zaia vorrei essere leghista ma proprio non ci riesco”, di Francesco Morosini, Il Piccolo di Trieste, 20 marzo 2010

ZAIA.jpgIn “Caro Zaia…” il giornalista Sergio Frigo analizza la crisi della Sinistra e i guai del partito di Bossi

LA LEGA RISCHIA DI TRASFORMARE

IL NORD NELL’ISOLA CHE NON C’E’

di FRANCESCO MOROSINI

di FRANCESCO MOROSINI

”C’era una volta il West”; e anche la Sinistra. Sulle cui tracce si è posto Sergio Frigo , giornalista del ”Gazzettino”, in “Caro Zaia. Vorrei essere leghista ma proprio non ci riesco” (Edizioni Biblioteca dell’Immagine ). Il titolo, che annuncia un libro/lettera al candidato della Lega alla Presidenza della Regione Veneto Luca Zaia, è solo in apparenza eccentrico rispetto al contenuto; anzi, tutt’altro. Perché rende bene l’intento di Frigo: cogliere nello “specchio” della Lega l’immagine dell’attuale Nord-Est con gli occhi di una Sinistra che qui oggi vi si sente estranea.

Certo, l’area è stata sempre sostanzialmente “bianca”; ma per una Sinistra solo finto-marxista era il solidarismo condiviso col Cattolicesimo popolare a farla sentire a casa; mentre oggi, distrutto tutto questo dalla rivoluzione industriale delle Piccole e medie imprese (Pmi) – Marx avrebbe parlato di conseguenze sulla sfera ideologica dello sviluppo delle forze produttive – la Sinistra si sente persa in queste terre di cui fugge il “naturale” egoismo a difesa di una ricchezza sudata ma recente; specie oggi che la crisi economica lega in un mix esplosivo il timore di perderla alla memoria della precedente, ma tuttora temporalmente vicina, povertà.

Infatti, l’immagine del Nord-Est che lo specchio leghista riflette ricorda come il Nord-Est medesimo sia un perfetto brodo di coltura per il partito di Bossi; cui aggiungere l’interrogativo, è lo stesso Frigo a porlo, che qui ora è forse la Sinistra che, rifiutando di capirlo, sta abbandonando, o l’ha già fatto, il suo popolo. In definitiva l’autore di “Caro Zaia”, incrociando Lega e Sinistra, cioè la politica, con Nord-Est , dunque con la geopolitica, offre un intrigante esplorazione di quanto avviene sopra la Linea Gotica; e per questa via contribuisce a capire il futuro dell’Italia. Lo fa, in particolare, guardando agli effetti che il leghismo induce, e pure con buoni successi vista la sua frequente afasia, sulla Sinistra. In primis, a danno di questa ed a favore della Lega, opera, ricorda l’autore, un fatto oggettivamente potente: l’impatto sociopolitico dell’immigrazione che, mutando la percezione dello spazio urbano da “comunitario” ad “estraneo”, crea delle “fratture urbane” (dalla sicurezza al valore del risparmio impiegato in immobili) sulla quale una forza politica come la Lega, mettendo provvisoriamente tra parentesi l’antimeridionalismo, è riuscita a crearsi una propria egemonia territoriale.

E, certo, specie in recessione, a dare a questo partito un’ulteriore grossa mano, ed un’altra scoppola alla Sinistra, è il timore di una competizione tra autoctoni e new comers nel mercato del lavoro. Sarebbe quest’ultimo quello che Marx chiamava “esercito industriale di riserva” (funzione peraltro che spesso si svolge fuori dai confini nazionali: recentemente in Asia) contro il quale, nel nome di una “dura” interpretazione del marxismo presente oltralpe almeno fino al crollo dell’Urss (ed impossibile in Italia dove la Sinistra al proletariato prediligeva la sua antitesi: il sottoproletario povero, viceversa amato dal dissenso cattolico), si mossero le municipalità gestite dal Partito comunista francese con atteggiamenti anti-immigrati che la Lega neppure sogna. Vero, questi erano “cattivi stalinisti”: però la frattura di classe tra proletariato interno e sottoproletariato esterno su cui, come giustamente sottolinea Frigo, la Lega si costruisce consenso, una Sinistra marxista invece che terzomondista avrebbe potuto almeno vederla.

Invece, niente; e così la mitica “classe”, per non dire di quelli nel frattempo diventati Partite Iva, è fuggita dalla Sinistra medesima a gambe levate. E pure con buone ragioni: perché il “poveri ma belli” è pura spazzatura concettuale. Conseguentemente, sostiene Frigo, il leggere il difficile presente della Sinistra attraverso la lente dei successi leghisti porta ad un’altra questione di assoluta delicatezza: quella dei rapporti tra politica e cultura. Ed è vero, come l’autore di “Caro Zaia” sottolinea, che l’anti-intellettualismo è uno dei punti forti della Lega e della sua popolarità. Va detto, però, che in questo fa media con le altre forze politiche, soprattutto quelle della cosiddetta Prima Repubblica. Che, a partire dal Pci, usavano l’intellettuale come abbellimento; arredo di lista elettorale e nulla più. Difatti, al primo dissenso, apriti cielo. Poi, per dirla tutta: il clerico colto (peggio se in vena pedagogica) è figura medievale, già residuale ai tempi del Savonarola.

In altri termini oggi, come già negli anni ’30 del ‘900 insegnava il grande economista Keynes, servono saperi specialistici e nessun “mago che indica la via”. Su questo, pertanto, l’anti intellettualismo della Lega potrebbe perfino essere progressivo. Invece altra cosa, e diversa, è la questione della cultura politica del “partito Lega”. Che vive di una contraddizione, quasi una sorta di mission impossible: presentarsi assieme sia come partito del lavoro del Nord che anche come nume tutorio di tutto ciò che esso, producendo sviluppo ha dissolto (lo testimoniano i capannoni industriali che hanno cancellato l’identità territoriale del Nord-Est molto più di qualunque ondata migratoria).

Nel breve il gioco funziona, specie se c’è crisi perché il rifugio in tradizioni ancestrali, tranquillizzando il corpo sociale, lo induce a premiare elettoralmente chi le produce; appunto, nel caso, la Lega. Ma si tratta di un “passo dalla gamba corta”; perché quello della “dolce Arcadia” è un mito illusorio se nel tipico Veneto agreste tradizionale ed antiunitario amato dalla Lega la pellagra colpiva (dati del 1878) il 30% dei contadini che, al tempo, erano la maggioranza della popolazione. Ma soprattutto perché, se il Nord-Est creato dal lavoro assomiglia molto di più (in Veneto in modo più eclatante che in Friuli; ma la “linea” è la medesima) alla “metropoli diffusa” in stile Los Angeles che ai panorama celtici, allora una cultura politica nostalgica può portare si il consenso popolare; ma assieme ad esso la cecità politico/programmatica. E qui, in particolare nel paragrafo “Disarmati di fronte al futuro”, come pure in quelli immediatamente precedenti, Frigo mette veramente il dito nella piaga cogliendo una contraddizione della Weltanschaung leghista; ed, in fondo, di tutte le Destre radicali “non liberali”. Questa: che il loro Dna culturale è estraneo/ostile alla globalizzazione, cioè al “fare impresa”, compreso il “signore con la valigia di campionari di prodotti” che, andando per il mondo a prendere commissioni, ha liberato il Nord-Est dalla sua Arcadia.

Insomma, la cultura no-global della Lega, almeno in prospettiva, può farle da ostacolo nel governo di un Nord post-crisi; salvo che esso decida di suicidarsi chiudendosi nel proprio ridotto territoriale. La ragione è che l’Arcadia come ideologia equivale, ha ragione l’autore di “Caro Zaia”, ad una domanda di semplificazione mentre la globalizzazione (che è un fatto; non un’opinione) è “complessità da afferrare con strategie cognitive non-banali; e, soprattutto, non-retoriche. E qui, al momento, la Lega è oggettivamente debole. Certo, in materia pure la Sinistra (la febbre reazionaria no-global con le patologie della decrescita ha colpito pure essa) ha i suoi guai; ma, al momento, conta poco. La Lega, viceversa, molto; ed è questo il problema. Ben evidenziato, dice Frigo, da quella sorta di catastrofe concettuale, nonché di afasia, che prende il partito di Bossi quando si tratta di politica estera quasi che essa «non producesse effetti capaci di incidere pesantemente sul nostro territorio» ben più di tutto ciò che potrebbe accadere, o accade, entro le agognate “piccole patrie” leghiste.

D’altronde, il Milione di Marco Polo (rappresentante quell’anima di Venezia che è totalmente assente nella Lega) già da secoli aiuta a comprendere come le questioni siano globali e che le chiusure siano solo vane “linee Maginot”. Pure fonte di debolezza militare, vista la supremazia storica, Usa compresi, delle potenze marittime (liberiste) sulle più “chiuse” terrestri. Altra incognita per Frigo è il federalismo. Al momento è fumo mascherato da norme legislative; ma potrebbe divenire il forcipe della secessione leghista contro lo Stato nazionale col rischio di fare del Nord una sorta di “Isola che non c’è”. Qui, però, pure il Mezzogiorno d’Italia dovrà assumersi delle inedite responsabilità nazionali. Invero, “Caro Zaia” riflette su molte altre aspetti del “caso Lega”; tuttavia, nel presentare il lavoro di Frigo, si è posta maggiore attenzione su quelli che paiono al recensore maggiormente decisivi per il futuro. Al lettore poi, se accetta il convinto consiglio ad acquistare il libro, valutare anche in altre prospettive questo interessante lavoro.

Recensione al mio libro “Caro Zaia vorrei essere leghista ma proprio non ci riesco”, di Francesco Morosini, Il Piccolo di Trieste, 20 marzo 2010ultima modifica: 2010-04-07T02:50:00+02:00da sergiofrigo
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