IL FEDERALISMO FISCALE E GLI EFFETTI SUI SERVIZI PUBBLICI: perché rischiamo di pagare di più per avere meno

Vecchiato.jpgAlcuni osservatori cominciano ad avvertire (Ilvo Diamanti anche su questo blog, il 7 luglio, Mario Pirani su Repubblica) che l’avvento del federalismo in tempi di crisi, come gli attuali, potrebbe portare a tasse maggiori per gli stessi servizi, oppure al mantenimento dello stesso livello impositivo con una riduzione però delle prestazioni erogate.

Un’analisi puntuale di questo meccanismo è stata messa a punto dalla Fondazione Zancan di Padova, e illustrata di recente nel corso di un seminario della consulta welfare della Cgil veneta a Malosco (Tn). Ce ne parla Tiziano Vecchiato, direttore della Fondazione.

 

L’APPLICAZIONE DEGLI STUDI DI SETTORE

“La questione si è evidenziata con la presentazione da parte del ministro Tremonti al Parlamento, nelle scorse settimane, della relazione sul federalismo fiscale e i costi standard, e in particolare della proposta per il calcolo del fabbisogno di gettito fiscale per finanziare i servizi essenziali. In sintesi, ci sono tre possibili modelli per questo calcolo (il modello dei determinanti, il modello dei Res e il modello degli studi di settore), e Tremonti ha confermato che il Governo ha scelto il terzo, e ha anche indicato che sarà la la Sose, la società (Mef-Bankitalia) che fa gli studi di settore per il suo ministero (affiancata dal Centro studi dell’Anci), a svolgere i relativi conteggi. Ora, la Sose è specializzata nell’individuare il livello di tassazione che va bene al contribuente e anche all’Agenzia delle entrate, nel senso che in genere il primo sa che paga meno di quanto dovrebbe se gli tassassero il reddito effettivo, mentre la seconda incassa delle tasse che altrimenti rischierebbe di non introitare. Ma nel caso dell’erogazione dei servizi d welfare però non dovrebbe funzionare così”.

Dov’è il problema?

“Nel fatto che in questo modo non ci si accorda su un diritto e un bisogno reale dell’utente, ma su una determinazione economica presuntiva. L’ottica è meramente economica, non di costo-efficacia. Si individua cioè un costo medio fra i costi per un determinato servizio sostenuti dalle varie regioni, e su quella base si stabilisce il costo standard, a cui tutti dovranno attenersi. Il costo standard di un livello di assistenza invece è il costo che si applica al processo di produzione di una risposta efficace al bisogno, ed è quindi il costo migliore, e non il costo medio”.

ALZARE I COSTI, DIMINUIRE L’EFFICIENZA

Cosa significa, concretamente?

“Che rischio di avere uno spreco, per qualche regione più virtuosa che magari alzerà la spesa, ma soprattutto una riduzione della capacità di risposta nella sanità e nei servizi sociali, e dei tagli alla qualità”.

Che alternative c’erano?

“Almeno due: quella più facile ma più grezza è un’indagine sulla spesa sociale dei comuni sul modello dell’Istat, mettendola in relazione ai livelli essenziali di assistenza. La seconda alternativa è il modello messo in atto dalla Regione Toscana, che ragiona con maggiore dettaglio sulla spesa per i servizi alla persone e alle famiglie”.

A quanto ammonta attualmente il fabbisogno per questi servizi?

“Il ministro ha parlato di 30 miliardi, ma evidentemente nel quantificare la spesa sociale italiana ha tenuto conto della tradizionale serie storica ignorando la riqualificazione messa a punto dalla Commissione Onofri, che aveva aggiunto altri trasferimenti per l’assistenza (assegni, indennità di accompagnamento ) che porterebbero la cifra a 49 miliardi; a cui andrebbero aggiunti altri 10-11 miliardi equivalenti alle detrazioni o deduzioni fiscali per le famiglie. Fatti i debiti conti, si supererebbe la cifra di 60 miliardi. Se il ministero pensa a 30 miliardi, vorrà dire dover dimezzare i livelli essenziali di assistenza”.

MENO POVERI, MA E’ UN BLUFF

Comunque l’Istat ha sostenuto di recente che è diminuito il tasso di povertà dei cittadini italiani…

“L’indice di povertà è relativo all’andamento della ricchezza nazionale nel corso dell’anno. Se c’è un impoverimento generale, come quello determinato dalla attuale crisi, si abbassa anche l’indice di povertà. Nel 2009 c’è stato un abbassamento di questa linea di 13 euro rispetto ai 999 euro del 2008 per una famiglia di due persone: significa che le persone che pur mantenendo la stessa situazione dell’anno precedente si ritrovano in seguito a questa operazione al di sopra di tale linea non si possono più considerare poveri. In realtà se avessimo mantenuto l’indice di povertà allo stesso livello, con in più l’aggiunta dell’inflazione, ci ritroveremmo con 230mila poveri in più. Se poi prendiamo in considerazione i parametri delle banche relativi alla diminuzione del credito al consumo, all’uso delle carte di credito e alle cessioni del quinto dello stipendio, scopriamo che il numero dei poveri è cresciuto nel 2009 di una cifra compresa fra i 500 e gli 800mila”.

 

IL FEDERALISMO FISCALE E GLI EFFETTI SUI SERVIZI PUBBLICI: perché rischiamo di pagare di più per avere menoultima modifica: 2010-07-28T10:17:00+02:00da sergiofrigo
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