DIAMO UN CALCIO ALLA POLITICA… Ma solo per un momento

totti.jpgVoglio mettere per un attimo da parte la politica per parlare di calcio, in particolare di Roma-Inter, Totti, Balotelli… Anche questo è calcio, no?seppure mirato alle gambe piuttosto che al pallone…

Sorpresa? Aspettate un momento. Dunque mi sono imbattuto nel (lungo) post che segue, osannato da amici e colleghi che stimo molto. Ma se lo propongo è perché a me sembra, al contrario, la quintessenza della deriva italiana, un impasto abile e furbesco di partigianeria e vittimismo.

Premetto che ho trovato stomachevole la sfilata dei tifosi romanisti con la maglia di Totti, domenica allo stadio, e che sto dalla stessa parte – politicamente e calcisticamente – di chi scrive. Ma i commenti li farò dopo.

 

IL DITO MEDIA: UNA RISATA LI SEPPELLIRA’

Martedì, 11 Maggio 10, 09:18 M. · Commenti (618)

[Premessa: non sarò breve. E, siccome negli ultimi tempi sono diventato, se possibile, ancora meno tollerante di prima, prego chiunque non abbia voglia di leggere una decina – eh sì – di pagine di saltare quanto segue e di andare direttamente ai commenti a parlare di quel che vuole invece di commentare “troppo lungo, che palle, troppo prolisso”. Sono le sette di lunedì mattina: nessuno è obbligato a leggerlo, ma a rispettare chi ci ha perso una notte a scriverlo sì. Thanks.]

Non so quanti di voi abbiano praticato sport agonistico, e a quale livello, ma chi ha avuto questa fortuna è sicuramente a conoscenza di una delle “leggi non scritte” che regolano questo genere di competizioni: si gioca alla morte, dando fino all’ultima stilla di sudore e di energia; spesso si gioca anche scorretto e si gioca per intimidire, ma mai – e sottolineo mai – si gioca per far male all’avversario. Perché, quale che sia la rivalità, si ha sempre ben presente che l’avversario è come te, si sbatte come te, suda come te, si esalta e si deprime come te. E, quando si è anche professionisti e non semplici agonisti, si ha ben presente che quello che hai di fronte, oltre a essere un avversario, è un collega.

Per questo motivo, il pomeriggio di mercoledì, parlando al telefono con Cristina (GinLemonCri per i frequentatori del blog) – la quale mi esprimeva tutti i suoi timori per le gambe e le caviglie dei nostri giocatori, ascoltati i proclami scriteriati e criminali lanciati come un tam-tam nella giungla purulenta e priva di controllo delle emittenti delinquenziali romane – mi sono sentito di tranquillizzarla. “Non esiste”, le ho detto, “che un professionista manchi di rispetto a un altro professionista facendogli male. Esiste un codice etico di base che, nonostante le polemiche e i veleni, nessuno supererà mai, nemmeno la feccia in maglia giallorossa.”

Mi sbagliavo.

L’ho capito dopo nemmeno quaranta secondi di “gioco” (le virgolette sono necessarie), assistendo all’entrata assassina di Nicolas Burdisso sulla coscia di Sneijder. Ora, mi rendo conto che è assolutamente inutile raccontarvi il prosieguo della partita, tanto tutti sappiamo come è andata, dai calcioni di Taddei e Perrotta ai pugni di Mexes per finire con la rabbiosa manifestazione di bestialità di Francesco Totti.

Resta il fatto che mi sbagliavo.

E, merda, sbagliare non mi piace, non mi è mai piaciuto, non mi piacerà mai.

Detesto sbagliarmi. E’ una cosa che non mi dà pace. Mi tormenta, mi tortura, mi ravàna dentro come se avessi una grattugia che va su e giù all’altezza del piloro.

E allora mi sono domandato perché avessi sbagliato così clamorosamente, ritenendo al di là di ogni possibile dubbio che l’etica dei giocatori in campo – abituati a darsele e a prenderle salvo poi stringersi la mano a fine partita e magari scambiarsi anche la maglia – potesse prevalere sull’istigazione a delinquere propagandata via etere dalle radio romane, complici (ma su questo torneremo in altro post apposito dedicato al peggio del peggio), tra gli altri, persino Paolo Assogna e Riccardo Gentile di SkySport.

E alla fine ci sono arrivato.

Mi ci sono voluti tre giorni e mezzo di rabbia cieca, in cui ogni notte ho tentato di scrivere questo post perché voi poteste leggerlo la mattina seguente trovandomi incapace di portarlo a termine senza incorrere in rischi di querela e, soprattutto, incapace di scriverlo senza trascendere in insulti e in proclami altrettanto violenti e vergognosi di quanto sentito fuori e visto poi in campo all’Olimpico mercoledì sera.

E poi, finalmente, ci sono arrivato. Mi sono sbagliato perché sono rimasto indietro. Indietro non rispetto allo sport e al calcio italiano di oggi, che sarebbe anche forse una nota di merito, ma indietro rispetto a quanto io stesso ho postulato e ribadito in una lunga serie di articoli usciti anni fa su una mailing list ora scomparsa che si chiamava I Fiori Volanti e che trattava principalmente di politica (nella quale, ça va sans dire, seguitavo, con disperazione di molti, a adoperare il calcio come paradigma per identificare meccaniche e problematiche ben più ampie e complesse).

Se penso che qui c’è chi mi dà del “complottista” mi viene da ridere, sul serio, perché ciò che scrivo qui è niente in confronto a ciò che scrivevo su quella bacheca. E, soprattutto, mi viene da ridere perché, se ho sbagliato in modo tanto clamoroso, è proprio perché, per un attimo, sono stato troppo poco “complottista”.

Come al solito, è stata la Paola, con la sua calma e la sua capacità di farmi ragionare, a darmi la tranquillità necessaria per rendermene conto. E’ stata lei che questa sera (vi sto scrivendo nella notte post-Chievo e, soprattutto, post-scandalo Roma-Cagliari), ascoltandomi, mi ha dato modo di ragionare a voce alta e di schiarirmi le idee.

[Avviso: amici “vatuttobenisti” che siete là in agguato, smettete di leggere, perché ciò che sto per scrivere ora va ben oltre la dolce acqua di rose per cui finora mi avete accusato di “complottismo”. Qui si fa veramente sul serio.]

E, parlando con la Paola, mi è tornato in mente un mio vecchio articolo – risalente, se non ricordo male, agli scontri romani nella notte di follia che era seguita alla morte di Gabriele Sandri – che avevo scritto per I Fiori Volanti. O forse era un’altra occasione, ma pur sempre di scontri tra tifosi romani si trattava.

Oggi, osservando le Totti-celebrations andate in onda all’Olimpico, mi chiedo per l’ennesima volta: che cosa può spingere una città intera – in realtà mezza, per essere precisi – a fare di una bestia ignorante e sub-umana un eroe e un modello, a tappezzare i muri della capitale con l’immagine del calcione criminale assestato a Balotelli corredati dalla scritta “Grazie Capitano”, a dichiarare il “Totti-day” con tanto di bambini allo stadio con la maglietta numero dieci, a esibire striscioni ridicoli impugnati dalla moglie a beneficio di un “intero popolo” adorante?

Due fattori, principalmente: ignoranza e disagio sociale.

La violenza, sia verbale che fisica, è soltanto una conseguenza, che di questi due fattori si alimenta e si nutre in una spirale che i media non permettono di interrompere.

Cos’era accaduto, quella notte di oltre cento settimane fa, di tanto particolare da far scattare in me un improvviso campanello d’allarme?

Semplice: il giorno dopo, leggendo i resoconti degli scontri folli scatenati dagli ultrà romani nei dintorni dello Stadio Olimpico, una notizia mi aveva colpito come un fulmine. Quella notte, a un certo punto, la polizia e i carabinieri avevano ricevuto l’ordine di rientrare in caserma.

Cioè, lasciate che ribadisca, perché il fatto in sé è tanto enorme che magari si pensa a un errore di battitura e, increduli, si va indietro a rileggere. Ripeto: mentre fuori impazzavano violenze di ogni genere, con proprietà vandalizzate, persone pestate a sangue, automobili e cassonetti incendiati in uno scenario simile alle rivolte di Los Angeles o delle banlieues parigine, polizia e carabinieri, invece di stare per strada a fare quello che è il loro – a volte ingrato – mestiere, sono rientrati nelle caserme e non hanno fatto nulla.

E l’hanno fatto dietro preciso ordine proveniente dall’alto.

Fondamentalmente, hanno lasciato che gli ultrà si sfogassero senza intervenire. Questo, in un cervello bacato e portato al “complottismo” come il mio, non poteva che scatenare domande e riflessioni di ogni genere.

Mia madre è vecchia e malata, e ha bisogno di una persona che la segua. Io e la mia famiglia abbiamo trovato un piccolo tesoro: una ragazzona egiziana forte e robusta con tanto di velo e due bambini, e un marito, e un cognato con altri bambini eccetera eccetera. Insomma, avete capito. Che c’entra? vi chiederete. Un attimo, ci arrivo. Questa ragazza ha raccontato a mia madre che, spesso, suo cognato va in quei posti dove, senza farti domande e senza chiederti nulla, ti riempiono un sacchetto con qualche scatola di legumi, un paio di lattine di pomodori pelati e due o tre pacchi di pasta. A Milano ce ne sono ormai a decine, e il cognato mi ha detto che ormai non è più come qualche anno fa, in cui c’erano soltanto immigrati e barboni a fare la fila: no, ora “siamo metà e metà”, come dice lui. Ci sono anche molti italiani, spesso nemmeno vestiti male, che a testa bassa e con un po’ di vergogna vanno a farsi riempire il sacchetto di generi di prima necessità.

Ora, non ci vuole una laurea in sociologia per sapere, al di là di ogni possibile e ragionevole dubbio e soprattutto al di là di ogni retorica berlusconiana, che la violenza è direttamente (e inscindibilmente) proporzionale al livello di frustrazione sociale e inversamente (e altrettanto inscindibilmente) proporzionale al livello culturale della società in cui si manifesta. Più aumenta il disagio sociale e diminuiscono la cultura e l’educazione di base, più è facile che si verifichino scoppi di violenza incontrollata: e questo vale a qualsiasi latitudine, dall’India di Gandhi alle periferie di Bogotà come di Stoccolma.

E l’Italia di oggi, al settantaquattresimo posto come libertà di informazione secondo l’ONU, devastata nel e nella morale, nell’economia e nella convivenza civile da quindici anni di berlusconismo – veicolo ed espressione di un vuoto pneumatico che ha annichilito i cervelli e dilapidato le coscienze, sbattendo al contempo letteralmente sul lastrico milioni di famiglie, piaga purulenta non soltanto di una politica, ma addirittura di un modo di vivere tumorale che si è diffuso in ogni strato sociale con la rapidità e la spietatezza delle metastasi più esiziali – è diventata terreno fin troppo fertile per il germogliare della violenza.

Ma il nocciolo della questione sta proprio nella parola che ho adoperato poco fa: incontrollata. Un regime – e quello di Berlusconi lo è – non può assolutamente permettersi di non controllare la violenza che esso stesso genera.

Ecco che torniamo al punto che più ci interessa (ve l’avevo detto che ci sarei arrivato): quale luogoluogo mentale migliore del calcio, e di tutte le passioni che muove e ha sempre mosso, per permettere alla barbarie e all’inciviltà – effetti collaterali inevitabili del berlusconismo come di ogni altro regime – di scatenarsi limitando i danni, altrimenti devastanti e potenzialmente dirompenti, che provocherebbero se si sfogassero nelle piazze durante la settimana o, per esempio, durante uno sciopero generale, e per motivi – quali la povertà crescente e l’assenza di prospettive sociali – ben più pertinenti e problematici non soltanto da risolvere, ma anche solo da affrontare? migliore dello stadio di calcio per far sì che questa violenza abbia uno sfogo relativamente innocuo? Quale

Ecco allora che lo stadio diventa – ormai lo sappiamo tutti, persino quelli che, in televisione, fingono di scandalizzarsene – una zona franca dove tutto è più o meno concesso, dove il teppista disadattato di turno può far volare la cinghia e mulinare il coltello, e gridare di rabbia e svellere lavandini e scagliarli dall’alto di una balaustra, nascondere mazze e spranghe senza che, più o meno, gli venga fatto nulla di ciò che dovrebbe subire se, a puro titolo di esempio, lanciasse quello stesso lavandino in testa a un vigile che gli fa la multa il martedì mattina. In questo humus, come già evidenziato dall’articolo postato da Simone qualche giorno fa, ovviamente la criminalità e l’ultradestra trovano linfa vitale e facile proselitismo, ma in realtà sono due facce dello stesso problema: è altrettanto risaputo che, allo stesso modo della violenza, il dilagare dell’estrema destra è direttamente/inversamente proporzionale al disagio sociale/al livello di cultura della società in cui emerge.

Ecco quindi che, con l’aiuto della Paola, mi è tornata in mente quella notizia. La polizia e i carabinieri ricevono l’ordine di rientrare in caserma. E questo ricordo improvviso mi ha fatto capire – in una sorta di epifanica rivelazione – un’altra cosa che proprio non riuscivo a comprendere, accecato com’ero dalla rabbia post-coppitalia. Per quale motivo, mi domandavo, non tanto le delinquenti radio romane di cui sopra, ma quotidiani che dovrebbero essere autorevoli o, per lo meno, seri, invece di stigmatizzare i comportamenti criminali e il clima da guerra civile scatenatosi a Roma, si armavano di penne al cherosene e attizzavano le fiamme degli ignoranti giallorossi? Per quale motivo, mi domandavo, politici di ogni genere e appartenenza, invece di occuparsi di faccende ben più gravi e pressanti, aggiungevano benzina al cherosene sparso dai quotidiani? E tutto questo – non dimentichiamolo mai! – per una partita di calcio?

Cazzo, era così semplice. Ho tradito me stesso, non ricordandomi di quella serie di articoli.

Il regime si auto-difende, e ha tutto l’interesse a far sì che una cosa innocua come il calcio diventi terreno di scontro e giostra medievale in cui riversare tonnellate e tonnellate di rabbia repressa. I quotidiani più autorevoli, tra gli altri Corriere e Repubblica, sono parte integrante del regime, e si adeguano, difendendo se stessi e il loro “editore”, che altro non è se non il regime stesso. Ecco allora comparire articoli solo in apparenza criminali e avventati, quali l’ormai tristemente famoso (almeno su facebook) Elogio del calcione che cancella incubi e ingiustizie a firma Cesare Lanza, uscito su Il Giornale di giovedì, in cui, tra l’altro, si legge: “E [Totti] ha avvertito […] che […] la sconfitta maturava minuto dopo minuto. Ed ecco quel Balotelli che provoca e insulta (come Poulsen, in Portogallo). Quel ragazzo strafottente. No, non ne posso più. Sono alla fine della carriera, e tante volte mi sono rassegnato, orgoglioso, col sorriso sulle labbra, soddisfatto delle qualità che tutti mi riconoscono. Ma tante volte sconfitto. Perdente. Con una squadra raramente all’altezza. Sono stanco, stanco. […] La misura è colma. Non sono al tramonto! Quel calcione che digrigna e urla dentro di noi è lì, pronto a colpire. Non voglio far male, no. Ma non ne posso più. Con un calcione cancello per un momento incubi, ricordi, spettri, amarezze, ingiustizie. Bisogna solo avere il coraggio di tirarlo, e io questo coraggio ce l’ho. Sotto gli occhi di tutti.”

Cesare Lanza, per quanto detestabile e condannabile e meschino, sa benissimo cosa sta scrivendo. Non a caso parla di “calcione che cancella incubi e ingiustizie”.

E Totti, che è talmente bestia e ignorante da non rendersi nemmeno conto di essere nient’altro che un patetico burattino, non solo si presta a ricoprire il ruolo dell’Idolo a Roma e del Penoso Coglione nel Resto del Mondo, ma prima lancia il sasso e poi si nasconde e piagnucola miseria, guaèndo un “mi sento solo” tra una soffiata di naso e l’altra, ben sapendo che un “intero popolo” di disadattati e di disperati riempirà lo Stadio Olimpico con inni e magliette celebrative e se lo coccolerà perché – ed è questa la cosa veramente triste – non ha niente di meglio da coccolare e da idolatrare: i quindici anni di devastazione morale del berlusconismo quello – e solo quello – gli hanno lasciato come modello: una testa di cazzo che sputa sugli avversari, che li irride salvo poi indignarsi quando si vendicano, un perdente, un bambino viziato e capriccioso che deve farsi cambiare il pannolone da Rosella Sensi e da Claudio Ranieri e ha bisogno di farsi difendere da un’orda di delinquenti che impazza via etere, un omuncolo che nemmeno anni e anni di campagne pubblicitarie mirate a migliorarne l’immagine sono riusciti a rendere umanamente accettabile, un buzzurro violento e caciarone che ha bisogno che la moglie, oltre alle tette, sventoli uno striscione in sua difesa.

E i giornali, sportivi e non, e le televisioni, sportive e non, subito dietro: la Gazzetta arriva persino a proporre un sondaggio chiedendo ai suoi lettori “Ha ragione Totti o Balotelli?”, apparentemente tralasciando o dimenticando che, se quella gamba negra fosse stata ben piantata a terra, quel “calcione che cancella incubi e ingiustizie” avrebbe potuto cancellare anche una carriera.

Devono incanalare la rabbia della gente per poterla gestire.

E, quel che peggio, è che ci riescono.

Ci sono riusciti con tantissima gente che conosco, che si è ritrovata a cancellare amici di vecchia data a causa dell’odio – sì, ho scritto proprio odio – che gli viene riversato addosso soltanto perché sono interisti. Ci sono riusciti, a trasformare una passione sana in qualcosa di malato e malsano, in qualcosa di puzzolente e marcio, e a scatenare odio e violenza.

Ci sono riusciti con me. Per tre giorni sono stato così annichilito dalla rabbia da non riuscire a scrivere il pezzo che state leggendo in questo momento. Ora, è bene che vi spieghi un paio di cose: non sono, non sono mai stato né sarò mai un “non-violento”. Per quanto possa essere discutibile questa mia posizione (e se volete ne discuteremo, un altro giorno, in un altro contesto), sono convinto che, in determinate circostanze, la violenza sia non soltanto giustificabile, ma addirittura necessaria.

Ciò non toglie, però, dalla realtà della mia vita, il fatto incontrovertibile che l’ultimo atto violento di cui sono stato partecipe risalga al lontano 1992. Da allora sono trascorsi diciotto anni, e non è poco. Non solo, ma ho anche un QI ben oltre il 160 e, come abbiamo visto prima, questo dovrebbe mettermi al riparo da alcuni eccessi.

Dovrebbe.

Eppure, non mi vergogno ad ammetterlo, se mercoledì notte avessi incontrato Totti nel parcheggio del MacDonald’s dietro casa mia, avrei preso il mio vecchio Bullock (l’antifurto con le palle) e gli avrei fracassato le rotule. Tutt’e due, con sistematica precisione. E anche con un certo gusto.

Questa rabbia che sentivo dentro – dovuta al doppiopesismo, alla persecuzione nei confronti della mia squadra, alle giustificazioni quasi unanimi del massacro sportivo di mercoledì sera, alla merda che è stata spalata su Lazio-Inter e non su Roma-Cagliari eccetera eccetera (potrei andare avanti per quaranta pagine raccontando tutto ciò che hanno fatto ai danni dell’Inter quest’anno, ma sono tutte cose che già sapete a memoria) – mi fa schifo.

Mi rivolta.

Mi nausea.

Mi disturba molto più di quanto mi disturbi il fatto di sbagliarmi come mi sono sbagliato rassicurando Cristina al telefono prima della partita. Perché posso tollerare – a fatica – di sbagliare, ma non posso tollerare in nessun modo di sentirmi uguale ai delinquenti giallorossi seguaci di Totti.

Non riuscivo a farmela passare. Non c’era verso. E, più mi rendevo conto della mia impotenza nel seppellire questa rabbia, più aumentava il mio senso di nausea. E di rabbia nei confronti di chi, come i media e i politici, aveva fatto di tutto per farla nascere dentro di me: come avrete capito, il più classico degli esempi del classico “serpente che si morde la coda”.

Fino a che, finalmente, la saggezza della Paola non mi ha fatto tornare con i piedi per terra, aiutandomi a ragionare. E a ricordare.

Ma, alla mia comprensione, mancava un ultimo tassello, un’ultima domanda che aveva bisogno di trovare risposta.

Perché proprio contro l’Inter?

E, alla fine, ho capito.

Ho capito una cosa che ovviamente già sapevo, ma che non avevo ancora interiorizzato. Ci voleva una lotta personale di tre notti contro un’odio e una rabbia che non sentivo miei per riuscire a farcela.

E’ così chiaro, ora… come ha scritto Adriano qualche tempo fa, ormai in Italia essere interisti è una sorta di presa di posizione politica. Essere interisti non è più soltanto tifo, ma significa anche andare contro un sistema marcio fin nelle fondamenta. Essere interisti significa, purtroppo – ed è un purtroppo un po’ malinconico – essere naturalmente contro questo schifo, ed è anche qualcosa che, nello zero assoluto morale di questo paese ostaggio del nulla, va ben oltre il semplice tifo calcistico. Ed è proprio questo il motivo per cui la violenza di cui sopra viene incanalata e pilotata – e i tanti amici che ho citato ne sono testimoni diretti, bersagliati improvvisamente dall’odio di persone a cui pensavano addirittura di voler bene – ai danni dell’Inter e a favore di chiunque altro a seconda del momento e della convenienza contingente.

E, di conseguenza, ho capito anche come fare per batterli. E, se incontrassi ora Totti al parcheggio del MacDonald’s, mi verrebbe da ridere. Da ridergli in faccia, per la precisione. Il Bullock resterebbe lì dov’è, ed entrerei in macchina con le lacrime agli occhi.

E allora ecco l’arma che nessuno può battere, finalmente trovata dopo aver vagato per tre notti in preda alla cecità della rabbia: la risata.

Provateci anche voi.

Non so come andrà Siena-Inter, ma pensate a questi mentecatti. Pensate ai sospetti su Lazio-Inter prima e poi riguardatevi le immagini di Daniele Conti, fijo de Brunello nostro, che festeggia sulla pista dell’Olimpico la sconfitta del suo Cagliari. Pensate alla Sensi che dice che ci dovremmo vergognare e, subito dopo, pensate all’allenatore del Cagliari che, out of the blue, all’intervallo mette dentro il terzo portiere, che guarda caso ha giocato otto anni in giallorosso e guarda caso si sdraia due volte, non una, per far segnare er gabidano. Pensate a questi poveracci che non sono riusciti nemmeno a vincere la coppetta nonostante un arbitro complice, una violenza sistematica che va contro ogni “regola non scritta” dello sport vero e un clima intimidatorio da guerra civile. Pensate a questi accattoni che mendicano uno scudetto corrompendo Cellino e piangendo finché non gli danno un rigore farlocco a sei minuti dalla fine, e pestano i piedi e strillano come neonati gridando al biscotto altrui perché non hanno altra arma per poter anche solo sperare di vincere se non quella di distogliere l’attenzione dai biscotti loro. Pensate a quel decerebrato di Totti che è talmente piccolo e meschino da mollare un calcio criminale a un ragazzino che a diciannove anni è più forte e più talentuoso di quanto lui abbia mai potuto sognare di essere, e nonostante questo perde. Pensate alla faccia lombrosiana di Bruno Conti e a un uomo come Montali, ostaggio delle radio dei delinquenti, che il giorno dopo è costretto a ritrattare ciò che ha detto la sera prima per paura che gli stessi mostri che ha contribuito a creare gli riempiano il culo di sprangate.

Pensate a questi animali che vanno allo stadio e fanno indossare ai figli la maglia numero dieci perché er gabidano – lo Sputai Lama, la Feccia del Calcio Italiano – è l’unico vero idolo che si possono permettere.

E poi, subito dopo, pensate all’arguzia di Josè Mourinho, alla correttezza estrema di Javier Zanetti, alla dedizione di Diego Milito, all’umiltà di Eto’o, alla signorilità di Massimo Moratti, e soprattutto al fatto che, incredibilmente, siamo così forti che questo scudetto marcio e vergognoso potremmo addirittura vincerlo nonostante i piagnistei, le sceneggiate, le scarpate, i manifesti agiografici e gli articoli compiacenti, gli aiuti del Parlamento e le sparate di Gasparri, la “doppia mano” di Tosel, gli smaccati aiuti arbitrali e la realtà virtuale da peyotl del multiverso in cui vivono Toni, Pizarro, DeRossi e Ranieri.

Pensate a questi poveracci che facevano i caroselli cinque giornate fa e pensate a quello sfigato che ha invaso il campo a fine partita. Pensate per un attimo a come dev’essere sentirsi tanto sportivamente e umanamente disperati da voler vincere un campionato così e pensate che, se per caso ce la faranno, invece di vergognarsi come faremmo noi, se ne andranno in giro come dei coglioni senza futuro per poi finire al Circo Massimo a cantare insieme a Venditti Grazie Roma con le lacrime agli occhi e la bava alla bocca mentre la Ferilli mostra le tette ormai sconfitte dalla forza di gravità.

Pensate a un paese intero che ha bisogno di un capro espiatorio calcistico per incerottare e nascondere le piaghe della sua lebbra.

Se riuscite a fare il salto – e vi assicuro che è piccolo, molto più piccolo di quanto possa sembrare – e a guardarli per un attimo dall’esterno… o, meglio, dall’interno del nostro essere interisti, vi salirà dal fondo dello stomaco una risata incontrollabile, squassante, irrefrenabile.

E, mentre ridete, pensate che questi stessi accattoni mentecatti – sì, proprio loro: Montali, Miss Rosella, Bruno Conti, Pradé, ma anche Galliani, Blanc, Secco e il resto della compagnia vomitante – il 22 maggio saranno davanti al televisore e pregheranno li mortacci loro e gli angeli tutti e terranno le dita incrociate fin dentro i loro capienti sfintéri perché sono dantescamente, disperatamente, pateticamente aggrappati a una nostra vittoria per non perdere milioni e milioni e milioni di euro.

E vi verrà da ridere ancora più forte.

Ridendo, darete di nuovo al tutto la dimensione che merita.

E, credetemi, è proprio questa la risata che li seppellirà.

STEFANO MASSARON

 

 

 

DIAMO UN CALCIO ALLA POLITICA… Ma solo per un momentoultima modifica: 2010-05-12T01:46:00+02:00da sergiofrigo
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