Non conosco i risvolti di una storia certo disperata, magari c’è dietro qualche amministrazione pubblica che non saldava i suoi debiti con l’azienda dove lavorava l’uomo, ma in generale è ormai invalsa l’abitudine, da parte di chiunque versi in difficoltà economiche a causa della crisi (ma a volte anche della propria insipienza) di attribuire allo Stato tutte le colpe e di inveire se la risposta pubblica non è all’altezza (e non lo è mai) delle proprie aspettative. C’è ad esempio un tale che tutte le settimane da Santoro, tra gli applausi del pubblico e l’acquiescenza colpevole del conduttore, allestisce la sua recita indignata prendendosela con i politici perché lui è senza lavoro (e ora grazie a questa tribuna pare l’abbia trovato).
MA IL LAVORO NON SI CREA PER DECRETO LEGGE SE NON C’È MERCATO
Non mi addentro qui nell’analisi giuridico-economica di questi assunti e sul loro reale significato in una situazione di libero mercato nella quale, volenti o nolenti, siamo immersi. Situazione che fa sì che il lavoro si crei non per decreto di legge, ma in base a precise condizioni economiche che da tempo, soprattutto nel nostro paese, non ci sono più: la domanda da porsi, purtroppo, è “chi paga il lavoro?” e perché dovrebbe pagarlo se in questo momento esso è fuori mercato?
PRIMA DEMOLIAMO LO STATO E ORA LO VOGLIAMO RICCO E FORTE
Quello che mi interessa rilevare è un altro aspetto, una contraddizione profonda – e tipicamente italiana – nel nostro rapporto con questo benedetto Stato. Perché gran parte di coloro che oggi inveiscono perché esso non è in grado di offrire risposte, sono gli stessi che sistematicamente (oggi e nel passato) hanno fatto l’impossibile per distruggerne la credibilità e minarne il potere economico: evasione fiscale sistematica e capillare, illegalità diffuse di ogni genere, accaparramenti indebiti di risorse pubbliche (dalla grande corruzione dei potenti alle pensioncine di invalidità di migliaia di cittadini sani), consenso a forze politiche che hanno nel dna una vocazione inestirpabile a promuovere scorciatoie private e demagogiche ai problemi piuttosto che soluzioni politiche credibili e generali.
CI SENTIAMO ETERNI ADOLESCENTI SOTTO UN PADRE CATTIVO
Con tutto questo alle spalle, oggi pretendiamo che lo Stato sia forte abbastanza per assicurare ai propri cittadini i livelli di benessere di quattro o cinque anni fa, quando la situazione economica era molto più florida, e magari anche per imporre agli altri le regole ferree e le nuove consuetudini di austerità che non vogliamo accettare per noi.
Siamo eterni adolescenti, che dopo aver litigato col papà gli riportiamo la macchina scassata, e il giorno dopo pretendiamo che ce ne faccia trovare un’altra nuova fiammante nel garage.