IN SALA MOLTI DEI PROTATONISTI DELL’EPOCA, MA IL DIALOGO RESTA CONGELATO
Ieri sera invece la sala era strapiena, con molti giovani e presenze finalmente politicamente variegate, dagli ex comunisti, agli ex autonomi, agli ex fascisti (non tutti necessariamente “ex”); entrando colpisce con forza il silenzio surreale della folla in attesa della proiezione: sarà la tensione del momento, o più semplicemente il fatto che non si sa a quale “tribù” appartenga il vicino di poltrona?
Poi parte il film, e rapidamente si viene catturati dalle immagini e dalle voci del tempo, dai filmini e dalle foto della famiglia Giralucci,
PERCHÈ NEGRI & C. NON ACCETTANO IL CONFRONTO
L’unico che ha smesso da tempo di raccontarsela è Raul Franceschi, che paga con una dura vita da esule a Parigi colpe che furono molto più leggere di quelle di molti compagni di allora, ora riciclati in docenti, pubblici impiegati, liberi professionisti, imprenditori, senza aver mai voluto o dovuto fare i conti con il proprio passato e le proprie responsabilità. Franceschi – ormai estraneo al clan degli ex – ha accettato di farsi intervistare dalla Giralucci, hanno preso il caffè insieme nel suo povero alloggio parigino, forse hanno persino fraternizzato. Lei sicuramente ha compreso qualcosa di più di quella stagione che la ha portato via il padre, assorbito pure lui – prima di essere ucciso in via Zabarella – dalla durezza dello scontro, dal fascino della violenza, dal vittimismo che legittimava l’escalation del conflitto col nemico.
IL CORAGGIO DELL’AUTOCRITICA: “PARTECIPAVAMO A UN GIOCO ORRENDO”
Ma a pronunciare la parola definitiva è un’altra protagonista che (come Romito) un giorno ha avuto il coraggio di dire “basta”: un’amica del padre, Stefania Paternò, militante di destra e segretaria del Fuam, protagonista di scontri epici coi militanti di sinistra: per lei il punto di svolta è stata l’uccisione dell’amico, la consapevolezza che la spirale della violenza, una volta avviata, non si ferma più: “Pensavamo di essere come i ragazzi della via Pal – dice – e invece partecipavamo a un gioco sempre più orrendo”. Un monito da tenere a mente anche oggi, quando le difficoltà del presente, le ingiustizie mai rimosse, possono richiamare soprattutto i giovani al fascino perverso dello scontro fisico.
UN FILM BELLISSIMO, UN APPLAUSO INCERTO
La chiave è riuscire a guardare la quotidianità, il conflitto, la storia, anche con gli occhi dell’altro: che è esattamente quello che cerca di fare, per tutto il film, Silvia Giralucci, attirandosi però, in questo contesto, più freddezze che solidarietà, nonostante la pellicola (nella sua precisa misura, artistica e umana) sia più pregnante di tantissime analisi storiche e sociali. A differenza dalla proiezione al Lido, infatti, qui l’applauso che scatta alla fine è timido, incerto, quasi imbarazzato
e anche il successivo dibattito stenta a decollare. I miei vicini di poltrona, di destra, ad esempio, non applaudono, e gli autonomi non parlano. Mettersi in discussione davanti ai propri compagni di lotta, anche a distanza di decenni, non è facile. Più naturale magari farlo privatamente, come hanno fatto alcuni ex autonomi con la regista, ma senza autorizzarla a riprenderli o a citarli.
UNA MEMORIA CHE SI PERDE SENZA ESSERE STATA METABOLIZZATA; IL SILENZIO DEGLI INTELLETTUALI
La sensazione, alla fine, è che Padova stia perdendo la memoria di quegli anni senza averla metabolizzata, anche perché sono mancate – dopo alcuni gesti politici importanti da parte dei sindaci (la pacificazione di Gottardo, l’inaugurazione della targa per Mazzola e Giralucci da parte di Zanonato) – prese di posizioni adeguate da parte di chi doveva avere gli strumenti culturali per metterle a punto e l’autorevolezza e il coraggio per farlo. Si tratta di una mancanza che Padova continua a pagare.