Non è bello, ma può capitare: uno si commuove per la morte del proprio cane, ma non di otto ragazzi di vent’anni. Al limite pensa, fra sé e sé, “meglio a loro che a me o ai miei”. Può capitare, non siamo tutti buoni. La questione terribile però è un’altra: perché c… si è sentita in dovere di dirlo? Cioè, una cosa del genere te la tieni per te, no?, vergognandotene un po’ magari. No, lei sente il bisogno di confidarlo a un amico, quel Francesco Gratteri,
LEI SA CHE IL SUO AMBIENTE SI ASPETTA CHE LEI RIDA, NON CHE SI COMMUOVA
Perché sa che è la risata, e non la commozione, che ci si aspetta da lei nel suo ambiente, e che confessandola avrà la stima e il riconoscimento del suo simile. Perciò quella intercettazione non svela solo la miseria morale della Iurato, ma anche quella del suo interlocutore (che non la rimprovera, tutt’altro!), e probabilmente di una certa fascia di “servitori dello Stato”, in realtà uomini e donne corrotti dall’uso della forza e dall’esercizio del potere: uomini e donne che provano, nel loro intimo, sentimenti opposti a quelli di solidarietà e commozione che avvertiamo noi persone normali, di fronte a eventi come questi. E che proprio nel nome di questa diversità si sentono un’élite in diritto di disprezzarci. È da questa sensazione che nascono i casi Genova, Cucchi, Aldrovandi e troppi altri.
UN ATTEGGIAMENTO CHE VA SRADICATO PER RIDARE AI CITTADINI FIDUCIA NELLO STATO
Certo il crimine non si combatte con le carezze, ma se oltre a rimuovere i responsabili non verrà sradicato questo atteggiamento dai gangli dello Stato, non si riuscirà a restituire fiducia ai cittadini, e noi saremo legittimati a pensare – in ogni simile circostanza futura – che il potente che porge fiori e si deterge lacrime sta in cuor suo ridendo del nostro dolore.