Oggi alle 17,45 all’Università di Padova amici, colleghi e studiosi presentano un libro a lui dedicato, con un dibattito moderato da Paolo Possamai a cui interverranno Ilvo DIamanti e Gian Antonio Stella.
Qui mi piace ricordarlo con le parole dell’amico e collega che gli è stato più vicino, Francesco Jori, che nel libro analizza la figura di Lago soprattutto dal punto di vista umano, perchè smentisce un luogo comune e ribadisce un concetto che mi è caro, e a cui ispirò la sua vita anche un altro grande, Ryszard Kapuściński: non si può essere un bravo giornalista se non si è una persona buona.
“Perché ha lasciato un segno così profondo? Scrive Lucrezio, nel suo “De rerum natura”: ho dato un nome alle cose. Individuare qualcosa di estraneo, riconoscerne le caratteristiche, definirlo, insomma appunto dargli un nome, e spiegare tutto que- sto agli altri, è essenziale per vincere le paure e superare i pregiudizi. A un Nordest spaesato, inquieto, smarrito, sofferente di malessere da benessere, ma incapace di definirlo e di comprenderlo, Lago ha dato uno strumento per chiamare per nome questo stato d’animo, per identificarlo, per superarlo (…)
Con un lascito, alla fine, più volte verbalmente ripetuto negli ultimi tempi: l’esortazione alla bontà come valore interiore, davvero al di là del bene e del male: “Vardè che quéo che conta xè volerse ben”, detto in lingua materna, quella che usava tutti i giorni. Così nella sofferenza terminale ha scritto non più sul giornale, ma col proprio stesso corpo il suo ultimo, più alto editoriale, lasciandoci in eredità la forza e la ricchezza di un impegno civile che non dobbiamo indebolire, scolorare, far cadere.
“Nulla può recare danno a un uomo buono, né in vita né dopo la morte”, dice Socrate agli amici che lo circondano affranti, dopo la sua condanna. Giorgio Lago è stato soprattutto un uomo buono. Per questo in tanti, ancora oggi, continuiamo a volergli bene”.