SE NON FACCIAMO RIDERE SIAMO ANTIPATICI
Purtroppo per il Veneto non si tratta di una novità: l’essere ridicoli è l’altra faccia di quell’essere antipatici che ci affligge quando rivendichiamo (ma ormai è acqua passata) i nostri successi, oppure portiamo avanti su scala nazionale le nostre rivendicazioni, o ancora – drammaticamente – di quell’essere patetici quando a causa delle frustrazioni imprenditoriali e umane alcuni di noi scelgono di morire.
Sarebbe dunque il caso che cominciassimo a chiederci perché; perché a differenza da altre regioni le macchiette localiste (la servetta che dice “comandi”, il contadino bigotto e brontolone) siano diventate lo stigma di un popolo che aspira invece ad essere l’erede dei fasti della Serenissima o l’interprete di successi economici planetari.
COLPEVOLI DI INADEGUATEZZA
Tra i meccanismi della comicità il più classico, assieme alle disgrazie che capitano alla vittima designata, è l’inadeguatezza, la sproporzione fra i mezzi e le aspirazioni. E qui ci siamo in pieno, no? Inadeguato è il sogno Serenissimo (l’ho già scritto qui sotto il 27 marzo http://sergiofrigo.myblog.it/2014/03/27/indipendentismi-populismi-le-soluzioni-semplici-sbagliate-ai-problemi-della-storia/) rispetto alle sfide della complessità globale che ci sottopone la modernità; inadeguati sono gli uomini che lo perseguono e i mezzi che essi sono in grado di mettere in campo per realizzarlo: mezzi intellettuali, intendo, ma anche materiali, ovvero “militari”, se è lecito definire in quel modo la ridicola “macchina da guerra” realizzata da quei bravi artigiani.
Freda e Ventura, in altre epoche, e poi Toni Negri e compagnia, che erano uomini di mondo e dotati di ben altro spessore culturale, nella loro follia avevano almeno intuito l’asimmetria dello scontro a cui si accingevano, e si attrezzarono a loro modo, riuscendo a creare grattacapi seri alle istituzioni e al “Potere” (e purtroppo alle persone che li rappresentavano); ma Rocchetta, Contin e compagni?
Basta, non voglio infierire su persone generose coi loro sogni. Quello che mi preme suggerire, qui, è che ci devono essere altri modi per conseguire l’autorevolezza che pensiamo (anche giustamente) di meritare, sfuggendo alle morse del ridicolo, oppure dell’antipatia o del patetico.
NON STRUMENTALIZZARE LA NOSTRA STORIA, MA VALORIZZARE LA NOSTRA CULTURA
Uno di questi modi è, banalmente, investire su quello che è il lascito più universale della nostra Storia, invece che insistere a puntare sul Pil (dove saremmo destinati ad altre frustrazioni): ma non tanto l’eredità meschina di un passato bric a brac da ripassare fra noi, per curare le frustrazioni e cercare di ribadire una superiorità che non ci viene riconosciuta più da nessuno, ma quel lascito di cultura e di apertura al mondo che ci arricchisce proprio nel mentre lo condividiamo con gli altri.
E come è la carenza di cultura a renderci ora ridicoli, saranno la cura e la condivisione della cultura a renderci di nuovo autorevoli: riservato al passato il posto che gli compete (che è il passato, appunto, tanto più importante quanto meno asservito alle miserie del presente), abbiamo nugoli di intellettuali, nell’ultimo secolo, a cui guardare, e che ci hanno fatto davvero grandi, anche se che noi li abbiamo colpevolmente rimossi, perché poco in linea con i valori dominanti, finalizzati solo al produrre e guadagnare.
RITROVIAMO GLI AUTORI SCOMODI DI IERI E DI OGGI
Lasciando dunque in pace per un po’ i Dogi, i Serenissimi e il Leone di San Marco, e ricominciamo piuttosto a tirare fuori dai cassetti i libri di Piovene, Parise, Zanzotto, Meneghello, Camon, Bugaro, Villalta, Trevisan, e magari il nuovissimo “Cartongesso” del vincitore del Calvino Francesco Maino. Li troveremo irridenti, sgradevoli, scomodi? Vuol dire che ci stanno facendo bene, scavandoci dentro. E proprio nel loro essere scomodi, eccentrici, diversi, c’è – come dice Ilvo Diamanti – l’essenza più profonda del loro essere veneti.