LO SCONTRO TRA LA FEDE ED IL MALE
Il nuovo libro è un racconto potente ed emozionante, ma costituito da pagine intrise di dolore, permeate in profondità dal male nel suo confronto inesausto con la vita, scritte con un linguaggio che a volte sembra inciso nel marmo: ci sono frasi che si stagliano nette, quasi autosufficienti, destinate ad incagliarsi nell’anima (“i bambini che nascono uccidono i genitori”, “lo amavo di un amore pieno di pianto”, “ma le gioie dovrebbero essere la condizione normale della vita”, “il mondo è piú grande del mio dolore”).
PERCHE’ DIO NON SALVA DAL MALE GLI INNOCENTI?
TENSIONE NARRATIVA COME IN UN THRILLER DELLO SPIRITO
Le serrate dispute fra la teologa e il pastore (sulla paura della vita, sulle incertezze della fede, sulle responsabilità degli adulti nei confronti dei bambini e sul sacrificio di sé proposto, empiamente, come merce di scambio con Dio) rimandano al Bernanos del Curato di campagna e anche a molti film di Bergman, con una drammaticità appena attenuata dal continuo dialogo con una natura benigna; il triangolo degli affetti, poi, allude ai diversi approcci alla “salvezza” propri dei cattolici, dei protestanti, degli agnostici, ma la profondità teologica dei confronti non sottrae nulla alla tensione narrativa, che grazie ad alcuni accorgimenti stilistici (l’uso dell’imperfetto, la presenza di una minaccia sempre incombente) regala al libro, almeno fin dopo la metà, una connotazione da vero e proprio “thriller dello spirito”, capace di avvincere e conquistare.
Poi le paure a lungo evocate finalmente si materializzano in una minaccia terribilmente reale, e allora – come spesso accade nella vita – esse finiscono per essere messe da parte, lasciando posto a una dura battaglia, o ad una serena accettazione.
UNA PAGINA DA “IL TEMPO E’ UN DIO BREVE”
di Mariapia Veladiano
All’ospedale me lo presero e spogliarono sotto luci bianche che mi ferivano gli occhi e il suo corpo cosí bello e perfetto quando lo lavavo e vestivo era bianco e anche osceno senza l’energia della vita e c’era ancora il nero della bocca, un buco in cui sarebbe entrato tutto intero tanto era scuro e profondo. Io non la potevo guardare quella voragine e allora tenevo gli oc-chi sulle sue gambe piene di vigore che potevano essere solo addormentate e per quello non si muovevano. E le toccavo anche, me lo lasciavano fare mentre scrutavano dentro le sue pupille nere spalancate sul nero del male e ascoltavano i colpi feroci del suo cuore. Li sentivo anch’io sotto le dita con cui stringevo i piedini di mio figlio e mi sembravano il galoppo di un cavallo ferito che me lo por- tava lontano e stringevo forte, tenevo per i piedi l’anina AAdi Tommaso e niente, niente mi poteva staccare, sarei andata con lui nel buco della morte.
O volto insanguinato,
disfatto dal dolor
o capo abbandonato…
Né il mondo né l’inferno
da te mi strapperà.
Il terribile inno di Gerhardt mi cullava come l’eco di una preghiera arcaica e sentivo che c’era qualcosa della passione in quel piccolo robusto corpo bianco abbando- nato e improvvisamente mi sembrò di capire cosa voleva dire l’Annunciazione: che tutte le madri generano Dio perché ogni bambino è Dio, ogni bambino è la vita, que- sta è l’incarnazione, pensavo. E la morte in croce vuol dire semplicemente che Dio non può nulla contro il ma- le. La vita è un telo sottile steso sopra un abisso e la sof- ferenza ci appartiene come appartiene a Dio. Analogia crucis: siamo come lui perché soffriamo come lui. Dov’era lo splendore del nostro essere come Dio? La bocca spalan- cata di Tommaso ingoiava nel nero suo lo splendore di carta di tutta la teologia.
Dio non toglie il dolore perché non può, non può, non può. Perché se potesse morirebbe tre volte lui che è tre volte vita per salvare i bambini. Per salvare questo mio bambino.