Le cose che abbiamo letto di lui raccontano di una vita disgraziata ma non disperata, nonostante tutto, e di un’ammirevole e ostinata ricerca di normalità nonostante i drammi vissuti: ma questo si è saputo dopo. Come pure dopo sono arrivate le polemiche per l’accesso bloccato allo stadio dell’ambulanza, o per gli insufficienti controlli medici. L’exploit di interesse si è registrato invece subito, a prescindere, come pure la curiosità morbosa dei media, che non hanno staccato mai il loro occhio elettronico dal dramma che stava avvenendo in campo, e che oggi, in alcuni casi (vedi il Piccolo di Trieste) sbattono in prima pagina foto terribili.
La domanda – anche sgradevole, ne convengo – è questa: perché questa morte – in fondo una delle tante morti da cui veniamo sfiorati, e neppure la più emblematica – diventa un caso eclatante, tanto da fermare il campionato di calcio?
Si potrà rispondere che è morto un giovane, e che è morto nel momento in cui stava esprimendo – attraverso il gesto sportivo – la sua prestanza fisica: e questo genera un corto circuito che è il primo motore dell’interesse.
Io credo però in realtà che a smuovere noi massa dalla nostra fisiologica indifferenza, e a suscitare commozione, sia banalmente il fatto che la morte è avvenuta davanti alle telecamere, e che la ripetizione delle immagini abbia generato un evento mediatico, senza neppure bisogno della drammaticità visiva di altri eventi analoghi, come lo schianto di Simoncelli con la moto.
RICORDIAMO, COL “MORO”, ANCHE GLI ALTRI CHE SE NE SONO ANDATI NELL’OMBRA
Per questo mi piacerebbe ricordare oggi, assieme a Piermario Morosini, altre vite che se ne sono andate, prima di poter esprimere la loro massima potenzialità, prima di poter completare la loro missione su questa terra, prima persino di poter essere amate. Ognuno di noi, se guardiamo indietro, ne ha incrociata qualcuna: ripensarci è il modo per farle rivivere, anche solo per un istante, e ridare loro un senso.