Ma è un altro il punto su cui vorrei soffermarmi: stasera in un’intervista commentando la decisione un consigliere di amministrazione di centro-destra della Rai si è lasciato sfuggire un commento rivelatore, chiedendosi “che si deve fare quando un subordinato insulta il capo-azienda”. A parte che l’insulto è quanto meno dubbio, vi inviterei ad appuntare l’attenzione su quel “subordinato”, che dice molto della concezione autoritaria che caratterizza questa decisione, e l’area politica da cui essa promana: subordinato significa inferiore, sottoposto, dipendente. Nelle aziende moderne non si usa più da tempo: magari sarà anche l’ennesimo cedimento al politicamente corretto, ma quasi tutti ormai parlano di “collaboratore”. Visto che c’era il nostro avrebbe potuto dire anche “servo”, o “suddito”…
Orbene, se c’è una cosa che dovrebbe essere chiara a chi fa il mestiere di giornalista (e specularmente anche all’editore) è che per assolvere bene al proprio compito egli non dev’essere subordinato a nessuno, se non al pubblico o alla propria coscienza. Il giornalista deve poter svolgere il suo lavoro in piena autonomia, altrimenti diventa un propagandista o un portavoce: che è la strada maestra per fare splendide carriere, come vediamo quotidianamente in Rai, ma non produce buona informazione, né attiva il senso critico degli ascoltatori. E questo sarà perfetto in un regime, ma non certo in una democrazia quale pretendiamo di essere.