Sergio Frigo

L’”ALTRA VERITA’” SUL VAJONT: L’INTERVISTA AL GEOLOGO CHE SCOPRÌ LA FRANA

Come in tutte le cose, anche sul Vajont c’è una verità più complessa di quella che appare a distanza di 50 anni, e ci sono responsabilità più articolate di quelle consegnate alla storia, angolazioni della vicenda che è importante conoscere. Le vittime sono vittime, e queste piangiamo oggi. Ma per essere fedeli all’imperativo “che non succeda mai più” bisogna conoscere tutte le implicazioni della tragedia, individuarne bene tutte le concause. So di affermare un concetto scomodo, ma limitarsi alla denuncia della criminale avidità della Sade, come si fa da decenni, è riduttivo.

Di tutto questo mi sono convinto fin dal 2001, quando a Erto Mauro Corona mi presentò il geologo Edoardo Semenza, allora 74enne (sarebbe morto appena l’anno dopo), che era il figlio del progettista della diga, Carlo ed era stato il primo a individuare la presenza di una frana preistorica alle pendici del Toc. Semenza, che abitava a Ferrara dove aveva insegnato a lungo geologia applicata all’università, era sul Vajont per la presentazione dell’omonimo film di di Renzo Martinelli, ma se ne stava andando, decisamente irritato per le semplificazioni e gli errori contenuti nella pellicola. Lo accompagnai fino alla stazione di Mestre e durante il viaggio mi illustrò la sua verità sulla frana, che stava finendo di ricostruire per il libro “La storia del Vaiont”, pubblicato pochi mesi dopo dalla Tecomproject di Ferrara. Semenza mi apparve come un uomo molto serio e riservato, ancora segnato dalla tragedia che visse tanto da vicino, profondamente convinto di quello che mi stava raccontando, deluso nel vedere che la “vulgata” che si era imposta sul Vajont era piuttosto diversa da quella che lui considerava la “verità storica” sull’evento.

Ecco alcuni brani dell’intervista che pubblicai qualche giorno dopo sul Gazzettino.

L’INTERVISTA AL FIGLIO DEL PROGETTISTA, EDOARDO SEMENZA

(…) Inutile dire che la verità di Semenza è molto più complessa e articolata di quella che emerge dal film, divergente dal racconto di Tina Merlin, ma anche dalla trattazione di Marco Paolini. È la verità di un tecnico, ma anche di un figlio che tiene a tutelare la memoria del padre. D’altro canto proprio la lezione di Paolini, la morale profonda della sua orazione civile, è in una frase che l’attore rivolgeva al pubblico alla fine del suo spettacolo: «Avete il diritto e anche il dovere di dubitare di tutto quello che avete ascoltato».

Che rapporti aveva con suo padre, nella sua qualità di dirigente tecnico della Sade?

«Le mie consulenze erano iniziate dal ’56, relative a diversi impianti in progetto e in costruzione. I nostri rapporti erano più che buoni, improntati a reciproca fiducia. Lo stesso si può dire dei rapporti con gli altri tecnici. Litigi e scenate sono state inventate da Paolini. Le divergenze erano principalmente con Dal Piaz, e riguardavano la frana da me scoperta, ma non diedero luogo a nessuna scenata. La mia consulenza per il Vajont terminò dopo la morte di mio padre, nell’ottobre del ’61, poco dopo l’inaugurazione dell’impianto».

LA SCOPERTA DELLA FRANA

Quando scoprì la frana?

«Io ero stato incaricato di eseguire delle verifiche dopo l’episodio di Pontesei, nel luglio ’59, e scoprii la frana a fine agosto. Poco dopo l’inizio dell’invaso (febbraio ’60) si verificarono due piccole frane. I primi piccoli movimenti della massa si registrarono con l’inizio delle misure topografiche, ai primi di maggio del ’60. Ad agosto fu possibile calcolare approssimativamente il volume in circa 200 milioni di metri cubi (Mentre Müller, nella stessa zona, aveva segnalato anni prima solo alcune masse, facilmente asportabili, la più grande delle quali era di circa un milione di mc. Le dimensioni reali dalla frana furono di 250milioni di mc., ndr)».

Cosa prevedeva che sarebbe accaduto?

«Che se con l’incremento dell’invaso la frana avesse continuato a muoversi, l’avrebbe fatto in blocco, e che le parti che avrebbero oltrepassato l’orlo del piano di movimento in corrispondenza della gola avrebbero potuto crollare nel lago. E il 4 novembre del ’60 effettivamente si verificò un movimento franoso, di circa 750mila metri cubi».

Che interventi suggerì alla Sade?

«Gli interventi furono suggeriti da Müller: abbassamento lento e graduale del lago (che portò rapidamente a un arresto dei movimenti), installazione di piezometri e altro. Müller però non consigliò mai l’abbandono del bacino, le sue proposte avevano sempre in vista la sua futura utilizzazione. Altri provvedimenti decisi dai tecnici furono la galleria di sorpasso, e il modello idraulico. Un sistema di drenaggi al di sotto del piano di movimento, ipotizzato sempre da Müller, avrebbe probabilmente stabilizzato la frana. Anche una migliore regolazione del livello del lago nell’ultimo invaso (in regime Enel), secondo i criteri proposti da Müller, avrebbe molto probabilmente evitato la catastrofe».

LE RESPONSABILITÀ DELLA SADE E QUELLE DELL’ENEL

E invece…

«Invece nell’agosto ’63 si raggiunsero i 710 m, benché i movimenti fossero ripresi. Erano ancora lenti, circa 0,5 cm al giorno, ma nei due precedenti invasi dopo un’accelerazione dei movimenti il livello era stato abbassato, portando al loro arresto. E si continuò a mantenere questo livello fino al 26 settembre».

C’erano dunque gli elementi per attendersi il peggio…

«Non certo la velocità con cui si sarebbe mossa la frana. Col senno di poi possiamo dire che le piogge dell’agosto e inizi di settembre resero la situazione ormai irreparabile quando, dopo la metà di settembre, si decise di svasare».

La Sade è stata accusata di aver accelerato i lavori per capitalizzare la prossima nazionalizzazione…

«Innanzitutto di nazionalizzazione si parlò solo dopo l’avvio del governo di centro-sinistra, nel ’62. Fino alla fine del ’61 (quindi dopo la morte di mio padre, avvenuta il 30 ottobre del ’61, poco dopo l’inaugurazione dell’impianto) nulla autorizzava a pensare a questa ipotesi. E poi il passaggio tra la Sade e l’Enel non fu una vendita, ma un esproprio, e l’indennizzo non avvenne sulla base del valore degli impianti, ma sul valore delle azioni Sade nei due anni precedenti».

Perché l’Enel, dopo aver acquisito il bacino, decise di proseguire ad oltranza col riempimento? 

«L’aumento della produzione di energia a quel tempo era richiesto a gran voce da tutti i partiti italiani, nonché dai sindacati. Quando il Vajont passò all’Enel, nel marzo ’63, l’invaso era stato ribassato a quota 650 metri e la frana era ferma. La decisione di riportare l’acqua a quota 700 fu sicuramente un’imprudenza, ma va tenuto presente che il governo – a seguito delle scarse piogge dell’inverno precedente – sollecitava il riempimento del bacino per far fronte alla crescente richiesta di energia. E certamente i dirigenti romani dell’Enel non avevano, su quella diga, le conoscenze che avevano maturato negli anni precedenti quelli della Sade».

 

(Dal Gazzettino del 10 ottobre 2001)

 

IL LIBRO “LA STORIA DEL VAJONT”

 

Come ho scritto sopra, nei mesi successivi Semenza illustrò per esteso la sua verità anche nel libro “La storia del Vajont”. Ecco la mia recensione di allora.

 

“La storia del Vaiont” di Edoardo Semenza: se il nome dell’autore vi ricorda qualcosa, è perché si tratta di uno dei protagonisti della tragedia; si tratta infatti del figlio del costruttore della diga, Carlo, ma anche del geologo che scoprì la frana. La sua “altra verità” in questo caso emerge con una certa fatica dalla precisa e approfondita ricostruzione della complessa situazione geologica dell’invaso, dall’analisi diretta dei comportamenti dei protagonisti del tempo, dalla confutazione puntuale e in certi passaggi pignola delle tesi (e di alcuni errori) alla base dei lavori di Tina Merlin, Marco Paolini, del tecnico della Montedison Nicola Walter Palmieri, e del film di Martinelli. La tesi di fondo, semplificando al massimo i contenuti di un libro che si rivolge al grande pubblico ma non rinuncia ad un rigoroso impianto scientifico è che gli eventi del ’63 furono, nei loro effetti, quasi del tutto imprevedibili, e che non vi furono dunque imperizia né, soprattutto, malafede, nei tecnici e dirigenti che gestirono la vicenda.

UNA TRAGEDIA FIGLIA DEL BOOM ECONOMICO DI CUI TUTTI BENEFICIARONO

Se responsabilità vi furono, andrebbero semmai ricercate nella frenesia che il boom economico di quei primi anni Sessanta trasmise al mondo politico, e nella fame di energia elettrica ingenerata da un apparato produttivo che tutte le forze politiche e sociali del paese – sindacati e sinistre comprese – volevano spingere al massimo per sfruttarne i benefici effetti economici. Di nuovo responsabilità collettive, dunque, e ancora inadeguatezza del quadro normativo, conoscenze tecniche rivelatesi carenti, insufficienza delle comunicazioni, soprattutto nel passaggio di consegne fra Sade ed Enel dopo la nazionalizzazione elettrica. Ma del padre Carlo, ad esempio, scomparso due anni prima della tragedia, Edoardo ricorda la frase scritta dietro una sua foto dalla madre il 25 febbraio del ’68, dopo la sentenza del giudice istruttore di Belluno (è qui una delle “cifre” del libro): «Ecco la prima, la grande, vittima del Vaiont».

LE VERITÀ STORICHE E IL RUOLO DEI MEDIA

E torniamo dunque ai pesanti interrogativi che un lavoro come questo inevitabilmente solleva. Libro sicuramente preciso e trasparente, ma per molti versi scomodo (ha trovato qualche difficoltà distributiva), e anche piuttosto difficile, lontanissimo certo dall’efficacia di un monologo televisivo, o di un film di successo: la “sua” verità si dunque presenta inevitabilmente complicata, cavillosa, persino giustificatoria, anche se basata su fatti che appaiono, nella loro rigorosa concatenazione, incontrovertibili. E’ la verità della ragionevolezza e della tecnica, che nella sua complessità si contrappone alla più semplice e immediata verità del cuore, della passione politica e civile, persino della legge, che ha già impresso nella coscienza dell’opinione pubblica e forse nelle pagine della storia le sue sentenze di condanna.

Ma possono coesistere due verità così diverse? Ed è possibile che la difficile verità di Semenza riesca a farsi ascoltare da qualcuno? E infine: come si può colmare l’enorme contraddizione scavata nelle pieghe profonde di una società come la nostra, fra la crescente complessità delle sue articolazioni politiche, economiche, scientifiche, e un apparato informativo di massa che invece di attrezzarsi per descriverla, è invece sempre più spinto – da un’opinione pubblica distratta – a semplificare e a spettacolarizzare? Dovremo forse adattarci a verità sempre più parziali e frammentate, delegate nella loro complessità solo agli specialisti e sottratte in buona sostanza al confronto democratico e ad una corretta sintesi politica e storica?

 

Nel caso in questione si può forse affermare che la verità di Semenza appare come incrinata – nonostante la solidità delle sue fondamenta – dalla memoria della frana e soprattutto dei duemila morti, che non ci sarebbero stati se non si fosse fatta la diga. Ma su questo punto effettivamente le responsabilità “politiche” sono ben più vaste di quelle fin qui individuate, finendo per coinvolgere in qualche modo le stesse vittime (qui mi riferisco alle tesi di un altro libro, di Giuseppe conte di Ragogna, pubblicato nel 1964, ndr) e noi stessi che siamo figli delle loro scelte del tempo. Se poi è vero che la colpevolezza non implica necessariamente la malafede nei protagonisti, come sostengono al contrario i colpevolisti a oltranza, è anche vero che la sua assenza non assolve tutto e tutti, come vorrebbero gli innocentisti. E soprattutto i duemila morti dovrebbero rimanere un monito per tutte le volte in cui l’uomo, anche oggi, si improvvisa apprendista stregone.

L’”ALTRA VERITA’” SUL VAJONT: L’INTERVISTA AL GEOLOGO CHE SCOPRÌ LA FRANAultima modifica: 2013-10-09T11:42:00+02:00da
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