VIGILIA DI ROGAZIONE: CAMMINARE TRA PASSATO E PRESENTE

ROGAZIONE.jpgVigilia di rogazione, domani sarò come al solito sull’Altopiano a camminare tutto il giorno, riempirmi gli occhi di verde, incontrare persone, forse a… prendere pioggia. In questo giorno mi piace proporvi questo bellissimo brano di Silvio Negro, giornalista, vaticanista e scrittore nato a Chiampo nel (Vi) nel 1897 e morto a Roma nel 1959, tratto dal suo capolavoro incompiuto “Stella boara” pubblicato postumo nel 1964. “In questo “libro di una vita”, in cui il mondo contadino rivela la sua antica saggezza e insieme il suo destino di morte ineluttabile – scrive Stefano Strazzabosco ne “L’antologia dei grandi scrittori del Nordest” – l’Autore riflette sul mutare dei luoghi e dei tempi, ponendo in parallelo la sua vita cittadina e il lavoro dei campi al paese natio”. (foto di Roberta Strazzabosco – I love Asiago) 

A seguire vi segnalo un bel video di Luca Tacconi, che riporta (nel finale) brani di un mio vecchio scritto sulla rogazione.

 

 

 

CHE FANNO A QUEST’ORA?

 

di Silvio Negro

 

Ascensione: questo è il giorno della rogazione, passa la processione fra i campi e il prete benedice, segue la gente ripetendo le preghiere (…)

Forse essi siedono sull’orlo del solco, i buoi fumano e fuma tutto il creato, ora consumano la zuppa di latte o la polenta abbrustolita sulla brace (…)

Ecco, è primavera, ma lassù il sole è meno cocente. Gli alberi sono ancora spogli ma quelli da frutto sono fioriti di bianco e di viola e il cielo è sereno ma nebbiolino. Solo per abitudine la vecchia s’è rifugiata fra il tepore delle bestie nella stalla, si sentono i colpi di scure echeggiare di monte in monte, nettissimi, e un rumore di carro lontano su una strada sassosa. Il verde dei prati è intenso, le acque sono d’argento al nuovo sole.

I tralci delle viti regolati sul pioppo sono come le trecce delle donne giovani.

Io sono qui nel fragore della città ed essi, i miei, nel silenzio primitivo della valle, rotto solo dall’abbaiare dei cani, dal rotolare lontano di un carretto, da un canto isolato sul monte, canto d’amore e di morte secondo il genio ariano, che non ha niente in comune con quelli del resto del paese. Quella voce è un lamento, e lo stesso lamento che si ritrova nelle canzoni degli alpini. Cantano gli stessi canti quando sconocchiano al lume della luna.

Io sono qui e scrivo di cose che non so. Spesso non le conosco, ma sono d’attualità, perciò debbo scriverne. È il mio mestiere, se non ne scrivessi mancherei al mio dovere.

Io sono alla Camera, ed essi recitano il Rosario.

Falciano a quest’ora, falciano ancora all’antica, in fila uno dietro l’altro, con moto ritmico.

Io sono seduto in un palco a teatro, ed essi stanno nella stalla e leggono le Vite dei Santi, o Fabiola, o l’Enciclopedia dei ragazzi che ho mandato per i nipoti, ma che interessa moltissimo anche i grandi. Leggono, o si lamentano delle tasse, o che i «signori» che stanno a valle abbiano trovato il modo di portar loro via l’acqua.

Bene o male, io sto in alberghi di lusso, cercando di non farmi vedere mi muovo fra gli snob della penisola, ed essi tagliano legna nel bosco, lavoro duro e sfibrante.

O vendemmiano, ma la scena non ha niente di quelle cantate dalla retorica del vino, non ha niente di bacchico, le buone giornate sono rare, vien su la nebbia dal piano, già aspra e pungente.

La neve è alta, hanno messo le trappole per le volpi.

La vita antica del focolare, con le sue luci sulle facce dei ragazzi come in un quadro di Gherardo delle Notti, la voce della pianura che mormora, gli odori domestici.

La sera che cala nel bosco, quell’incantesimo dell’ultima luce, quella vita sommessa di scalpiccii sulle foglie morte, di svolazzi, di borbottii tra le fronde, quel senso primigenio e puro della natura.

La voce domestica delle acque, il crudo morso montanino del vento, l’aria trasognata delle case sotto la luna.

Finisce con la grande rapsodia dei grilli, a coro disteso, ultimo pezzo del capitolo.

Ci penso spesso rientrando talvolta a casa alle quattro o alle cinque del mattino: io chiudo la mia giornata e mia madre forse in quel momento inizia la sua, esce di casa a quell’ora, accompagnata dal cane, per andare alla prima messa. La notte è ancor piena di stelle, ma i suoi terrori sono passati con l’apparir della «stella boara» ch’è Venere per tutti gli altri, che laggiù ha destato la stalla. Questo è l’unico astro del firmamento al quale il contadino faccia attenzione dopo il sole e la luna, e la notte, purgata d’ogni incubo sinistro, vive ormai solo della serena attesa del giorno, appartiene alle sollecitudini dell’uomo e non più ai capricci delle fantasie.

VIGILIA DI ROGAZIONE: CAMMINARE TRA PASSATO E PRESENTEultima modifica: 2013-05-10T11:20:00+02:00da sergiofrigo
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