Questa è la recensione del critico Rolando Damiani, sul Gazzettino di ieri, alle Antologie degli scrittori del Nordest, edite dalla Biblioteca dell’Immagine e coordinate dal sottoscritto con Francesco Jori e Gian Mario Villalta (per il Friuli)
Undici i volumi, uno per ogni provincia di Veneto e Friuli V.G., per un totale di quasi 2400 pagine, che presentano l’opera di quasi 350 scrittori negli ultimi 150 anni, da Ippolito Nievo al giovanissimo Giovanni Montanaro, finalista del Campiello.
I curatori dell’opera sono invece Pier Francesco Franchi (Belluno), Francesco Tomada (Gorizia), Mirco Zago (Padova), Gian Mario Villalta (Pordenone), Luciano Caniato (Rovigo), Anna Renda (Treviso), Mary Barbara Tolusso (Trieste), Walter Tomada (Udine), Tiziana Agostini (Venezia), Paola Tonussi (Verona) e Stefano Strazzabosco (Vicenza).
I volumi sono disponibili, a 14 euro l’uno (ma si può acquistare anche il cofanetto completo) in 550 librerie e punti vendita di Veneto e Friuli, oppure si possono richiedere direttamente alla casa editrice.
di Rolando Damiani
Nell’introduzione di quarant’anni fa a un’antologia di narratori
veneti del ‘900, Guido Piovene attribuiva a loro il compito di
esplorare “le grotte di un terreno su cui si alzava una cattedrale
svanita”. E diceva che nella repubblica dei dogi non aveva mai
avuto fortuna “una letteratura di ardimenti lirici e speculativi,
imperterrita nell’indagare il reale, amante anche dei suoi veleni
e pronta ad accensioni metafisiche ed etiche”. In periferia
semmai aveva trovato spazio una cultura di indole antiufficiale e
antiaccademica, quasi parodistica rispetto all’Olimpo veneziano
celebrato da sommi pittori e garantito dall’abilità dei governi
e dei commerci. Piovene arrivava dunque a sostenere che ogni
scrittore di una certa levatura, nato e attivo nei luoghi sui quali un
tempo vegliava il leone marciano, fosse “un cacciatore solitario
delle proprie ombre” destinato a compiere insieme alla letteratura
novecentesca del Nordest “una grande discesa agli inferi per
riportare alla superficie molta verità e profezia”.
L’analisi di Piovene, appartenente a un’epoca di confine con la
nostra e a una cultura già ormai lontana, è un antecedente anche
ideale di quella su cui poggia l’introduzione generale di Sergio
Frigo e Francesco Jori all’Antologia in undici volumi dei grandi
scrittori del Veneto e del Friuli Venezia Giulia, stampata dalle
Edizioni Biblioteca dell’Immagine di Pordenone. Con rapide
pennellate essi tratteggiano il vuoto prodotto in questi territori
dalla caduta della Serenissima e dal successivo limbo politico
dell’occupazione austriaca. Lo stato unitario, quando giunge
nel 1866, è un’entità astratta rispetto alla Chiesa e alla “famiglia
rurale”. Per decenni il Triveneto resta una realtà a sé stante,
contraddittoria nell’adesione al Risorgimento di un suo figlio
geniale, come Ippolito Nievo, e nella mentalità antistatale o
addirittura anti italiana che si manifesterà con esiti perfino
drammatici (e il più possibile taciuti) in episodi della Grande
Guerra.
Sono i prodromi di un localismo endemico o fecondo di una
pluralità di “imprese” e di voci originali. La ricchezza veneta,
riapparsa alla luce nel secondo ‘900 e testimoniata da una
letteratura imponente, proviene da una varietà di cultura e
d’ambiente cui sono tuttavia intrinseci dei limiti. Si chiedono i due
coordinatori delle undici sillogi intitolate ad altrettante province
(e ben curate da valenti studiosi e autori loro stessi, come Villalta
per Pordenone, Strazzabosco per Vicenza, Tiziana Agostini per
Venezia o Caniato per Rovigo) quale volto del Veneto emerga
dagli oltre 200 scrittori e poeti che nel corso di circa un secolo e
mezzo qui “si sono raccontati”. E a ragione rifiutano una risposta
univoca, ponendosi piuttosto un’altra serie di questioni: “Una
regione? No, in realtà sette province. Sette province? No, in
realtà quasi seicento Comuni. Seicento Comuni? No, in realtà
un pulviscolo di frazioni caratterizzate da un campanilismo
tormentato”.
Se le menti e gli animi sono divisi, c’è però un nesso profondo
che unisce Comisso a Marin, Zanzotto a Parise, Rigoni Stern a
Meneghello, ed è l’amore autentico, se non viscerale, per questo
angolo specifico (“felice” lo chiamava Comisso) dell’Italia e del
pianeta. Non si può riferire o esemplare la storia della letteratura
triveneta prescindendo da questo attaccamento dei suoi figli
artisti a una terra materna, custode di tracce secolari del lavoro e
dell’ingegno. È un legame innanzitutto psichico, talvolta mantenuto
a una grande distanza geografica, come nel caso di Parise nei suoi
viaggi in Asia e per il mondo o di Meneghello in Inghilterra. Da
tale sentimento, frutto di una consapevolezza culturale, è sorta
la difesa che scrittori e poeti delle nostre frazioni, dei comuni
e delle nostre province hanno costituito rispetto a mutamenti
dal ritmo precipitoso, per i quali si poté passare in un paio di
generazioni “dall’aratro a internet”. Frigo e Jori notano che letterati
e intellettuali in gran numero si sono mostrati “tendenzialmente
all’opposizione, o almeno in disparte, rispetto alle nuove strade
che ha imboccato negli ultimi decenni la società veneta”, cui è
progressivamente approdata un’ondata migratoria di etnie giunte
ora al numero di 170.
C’erano un tempo alcuni segni di isolamento avvertibili nella
fisionomia degli scrittori veneti, come se l’anima insulare
dell’antica Venezia sopravvivesse nei caratteri della cultura da
essa di lontano discesa: si vedevano ad esempio in Comisso, pure
viaggiatore in Cina nel 1930, o in grandi che abbiamo perduto da
poco. Ma un’altra geografia del Veneto e dei suoi contorni si sta
disegnando. Sarà utile a conoscerla questa vasta antologia che si
disloca in tante differenze territoriali e presenta molteplici prove
di narrazioni o versi o scritti vari dove, più che il passato, si possa
contemplare il futuro verso cui le nostre terre stanno muovendo.