PADRE TUROLDO, VENT’ANNI DOPO: UNA VOCE CHE ANCORA CI INTERPELLA

 Turoldo.jpegVent’anni fa come oggi moriva a Milano Padre David Maria Turoldo, un grande poeta, un testimone inflessibile del nostro tempo e una delle voci più limpide e scomode del cattolicesimo italiano.

 

Vi propongo qui un suo testo e alcune sue poesie, che ci raccontano la sua adesione alla Resistenza, la sua fede inquieta, le fatiche del suo sacerdozio e il confronto virile con la morte.

Segue un articolo su di lui pubblicato nei giorni scorsi dal Gazzettino, una sua intervista sulla vocazione dell’uomo e un brano indimenticabile che il maestro Bepi De Marzi ha tratto da un suo testo dal salmo 136 “dei deportati”.

 

SPOSATO HAI UNA PENA…

   I miei ricordi di guerra.  E il mio sacerdozio nella guerra. Quando braccato dai fascisti per una predica nel duomo di Milano: una predica sull’aspirazione dell’uomo verso la luce. Era il vangelo del cieco di Gerico che gridava verso il Cristo, perchè gli usasse pietà. E Gesù che gli chiede: “Cosa vuoi che ti faccia?”. E il cieco a supplicarlo: “Signore, che io veda…”. E io lanciato, con il vangelo in mano, dall’altare: proteso sulla folla (che domeniche!) a dire, a urlare: “Signore, che tutti vedano!”. Che vedano i grandi e i fanciulli, giovani e anziani… Che veda la Chiesa, che veda il governo… Perchè se un cieco conduce un altro cieco… Eravamo in piena guerra, in quell’interminabile e assurda guerra.

   Così, la porta della sacrestia del duomo è stata piantonata. Ma un sacrista è venuto sull’altare a dirmi di mettermi in salvo, a messa finita. Allora, mescolato alla folla, sono uscito per una porta laterale e sono corso verso la periferia a nascondermi presso una casa di amici, attraversando la città sepolta nella calura di luglio.  E c’era gente, pochissima, come sono i pomeriggi  estivi e domenicali di Milano, sdraiata al fresco nel parco. Poi, fra le macerie, i bambini che giocavano, e un profumo acutissimo di tigli che riempiva la casa…

   Dove, appena entrato e saputa ogni cosa, gli amici – tanto per incoraggiarmi – mi danno quello che hanno, in attesa di prepararmi un po’  di desinare. E mi offrono una meravigliosa pesca. Ancora più meravigliosa perchè eravamo in tempo di guerra; e io, così trafelato… Poi quei bambini sulle macerie; e quel profumo di tigli; e il mio stato d’animo: stanco per quella guerra che non finiva mai.

   Così, appena addentata la pesca, ecco che mi viene ancora di cantare:

 

Senti che è di troppo

il sapore di una pesca

in questa povertà

di case diroccate;

Senti che non ti è lecito

provare questo dolciore

d’anima emigrata

dalla strada ferita

della tua umanità.

Sposato hai

una pena

di non sentire mai

dolcezza alcuna

che non sia di tutti;

e ora ti seduce

questo languore di tigli,

e ora vorresti

andartene in pace

in quest’orlo di città,

in queste ghirlande

di bimbi e dimenticare.

……………..

……e il tuo sacerdozio

è un’oasi

ove essi hanno il diritto

d’approdare

dalle loro fatiche.

MEMORIA

 

È la memoria una distesa

di campi assopiti

e i ricordi in essa

chiomati di nebbia e di sole.

 

Respira

una pianura

rotta solo

dagli eguali ciuffi di sterpi:

 

in essa

unico albero verde

la mia serenità.

 

DIO NON VIENE ALL’APPUNTAMENTO

 

Ma quando declina questo

giorno senza tramonto?

All’incontro cercato

nessuno giunge.

E le pietre bevono

Il sangue di questo cuore

Ancora per miracolo vivo.

 

IO NON HO MANI

 

Io non ho mani

che mi accarezzino il volto,

(duro è l’ufficio

di queste parole

che non conoscono amori)

non so le dolcezze

dei vostri abbandoni:

ho dovuto essere

custode

della vostra solitudine:

sono

salvatore

di ore perdute.

 

ALLORA RIDERO’ DELLA SUA DELUSIONE

 

Armata di falce verrà

pronta a ingaggiar battaglia.

Altri forse avranno un gesto

di pietà:

fonde pensavano

fossero le radici.

E certo non sapevano

che celavo una continua

attesa d’andarmene.

 

Da “IL GRANDE MALE”, Mondadori, 1987

 

Ancora un’alba sul mondo:

altra luce, un giorno

mai vissuto da nessuno,

ancora qualcuno è nato:

con occhi e mani

e sorride. Amici, mi sento

un tino bollente

di mosto dopo

felice vendemmia:

 

in attesa del travaso.

 

Già potata è la vite

per nuova primavera.

 

PADRE TUROLDO, POESIA TRA PREGHIERA E INVETTIVA

di Edoardo Pittalis

In seminario da ragazzo lo chiamavano Bepo Rosso per i capelli fulvi. Gli toccarono in sorte due doni: la fede e la poesia. “Dandogli la fede Dio gli ha imposto di cantarla tutti i giorni”, ha scritto Carlo Bo. E padre David Maria Giuseppe Turoldo ha continuato a cantare fino all’ultimo giorno, quel 6 febbraio di 20 anni fa quando se lo portò via un tumore al pancreas. “La vita non finisce mai”, aveva detto 4 giorni prima ai fedeli nel Duomo di Milano. “Per me la morte è sempre stata come una fessura attraverso cui guardare i colori della vita”. Fu sepolto nel piccolo cimitero di Fontanella di Sotto il Monte, il paese di Giovanni XXIII, dove aveva fondato la comunità “Casa di Emmaus”.
      Poeta grande, mistico, predicatore, coscienza inquieta della Chiesa. Profeta, ma “la Chiesa riconosce la profezia troppo tardi”, disse il cardinale Martini. Certo scomodo, non sempre capito da tutti, uomo contro: contro il Nulla, il consumismo, lo spreco, il bigottismo. Soprattutto uomo di fede che non oscilla mai: sta fermamente dentro la Chiesa, ma criticamente. “La fede gli scottava dentro come la lava”, ha scritto Giorgio Lago sul Gazzettino.
      Friulano di Coderno, campagna di Sedegliano nella Bassa friulana, che oggi ha metà degli abitanti di cento anni fa. Famiglia contadina povera e religiosa, nono di 10 fratelli, padre emigrato. E’ rimasto legatissimo a quello che chiamava il “piccolo popolo” al quale ha dedicato il suo unico film, “Gli Ultimi”. Nato nel 1916, in quella piana occupata dalla Grande Guerra, seminario nel Vicentino, sacerdote dei Servi di Maria nel 1938, studi teologici a Venezia e trasferimento a Milano dove lo chiama il cardinale Schuster e dove si laurea alla Cattolica con una tesi sulla “Fatica della ragione” che gli schiude le porte della carriera universitaria. Incomincia a predicare la domenica in Duomo e lo farà con un successo crescente per un decennio.
      Nella Milano dell’occupazione nazifascista, il giovane sacerdote collabora attivamente alla resistenza, dialoga con azionisti e comunisti, non ha paura di sporcarsi le mani, rischia più volte la cattura. Mette in versi la sua scelta: “E io con mani inchiodate/ all’uso delle armi:/ come te, o Cristo, solo,/ in faccia alla morte”. La Resistenza per lui è una militanza che durerà tutta la vita. Rifiuta di schierarsi con un partito, nel 1948 non accetta di sostenere pubblicamente la Dc alle elezioni: “Non bisogna confondere la Chiesa con un partito, né un partito con la Chiesa”. E non cambierà, nel referendum del 1974 si schiererà per il “no” all’abolizione del divorzio.
      Sostiene don Zeno Saltini e il suo progetto di “Nomadelfia”, il villaggio costruito per accogliere orfani di guerra. Farà la stessa cosa con don Milani e don Primo Mazzolari. Ma è troppo “liberale” nel concedere spazio alla coscienza e nel sostegno aperto all’opera di preti scomodi perché il Sant’Uffizio non si interessi alle sue prediche e alle sue poesie. Sono appena state pubblicate le raccolte di versi “Io non ho mai” e “Gli occhi miei lo vedranno”. Così nel 1953 padre Turoldo è costretto a un lungo pellegrinaggio tra le case del suo Ordine in Europa e in America. Rientra dopo anni per l’interessamento di Giorgio La Pira; nel 1961 è a Udine e incomincia a frequentare Pier Paolo Pasolini, e anche coi suoi consigli realizza il suo film sui friulani nel ’62. Si dedica a un intenso lavoro di saggista, di traduttore, di poeta. Scrive drammi sacri, spiega la liturgia in sette volumi e una “Bibbia storia dell’uomo”, collabora con Bepi De Marzi per mettere in musica e incidere i Salmi. Partecipa con brevi letture alla trasmissione radiofonica “Aspetta, si fa sera”. La sua è una poesia popolare perché semplice nel linguaggio, immediata nella metrica, densa nel significato. In lui la religione si fa poesia: “con tormentata consapevolezza”, dirà Andrea Zanzotto. Non è lacerato dal dubbio, è rivoluzionario proprio perché si abbandona a una fede cieca: “Credere è un’autentica rivoluzione”, scrive. Il suo è un linguaggio espressionista, certo ha la forza ermetica del primo Ungaretti e la tensione sociale del primo neorealismo.
      Collabora assiduamente al Gazzettino, nell’aprile 1991 commenta il delitto di Pietro Maso che con gli amici ha sterminato la famiglia: “Quei quattro giovani, ancora imberbi e non più fanciulli, esseri cioè senza innocenza e non ancora uomini, se mai questo è un tempo per essere uomini”.
      Poi scrive a Gorbaciov che gli risponde in nome di “un cambio di civiltà senza spargimento di sangue”. Il profeta ha finalmente trovato ascolto nel mondo. Ma è tardi. Dimenticarlo è come accettare di cancellare i punti di riferimento della nostra cultura.
     

*Il Gazzettino, 31/01/12

 

PADRE TUROLDO, VENT’ANNI DOPO: UNA VOCE CHE ANCORA CI INTERPELLAultima modifica: 2012-02-06T03:02:57+01:00da sergiofrigo
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