Oggi (e domani) niente riflessioni su politica, economia, recessione, crisi eccetera, niente fantaromanzi nè televisione e giornali con moderazione. Oggi e domani montagna, chiacchiere e amici.
Solo una piccola parentesi “politica” stamattina, sotto il… Mortigara: arriva un gruppo di alpini del feltrino (altri sono già in alto) con pale e picconi, sotto il sole già cocente vanno a liberare trincee dai detriti.
Non mi accorgo neppure come, ma in un attimo stanno già parlando di Bossi, Calderoli e Tremonti. “Li aven fati scapare – dicono – sem stufi che i vegn a contar bal ai belunesi”. E un altro, barba grigia fino alla pancia, facendo ondeggiare la pala minacciosamente: “Queste ghe volea par quei là”.
Ridiamo, non serve aggiungere nulla, e proseguiamo il cammino. “C’è qualcosa di nuovo oggi nell’aria…”
Ci aspettano i “roversi” del monte sacro alla patria, un deserto verde di strapiombi e di larici, e un piccolo cimitero austriaco ameno come un giardino, aggrappato a uno sperone di roccia a picco sulla Valsugana. E poi la salita fra gallerie, postazioni, camminamenti e trincee, oggi in gran parte recuperate, dove nel giugno del 1917 caddero migliaia di soldati. E dove oggi sgambettano maturi signori con aria sofferta e bambinetti con sandali e bermuda.
E domani Cima Larici!
E PER NON CEDERE ALLA RETORICA MONTANARA…
Ma per non lasciarsi prendere la mano dalla retorica montanara, ecco una gustosissima pagina dello scrittore e intellettuale bellunese Beniamino Dal Fabbro (1910-1989)
Da Villapluvia e altre poesie, Firenze, Parenti, 1942
[…] La domenica ci si sveglia prima dell’alba al tramestìo della gente che, carica di zaini sulle spalle, con le scarpe chiodate e indosso tutto l’altro armamentario di circostanza, si raduna intorno alle autocorriere per la settimanale gita in montagna. In piazza gli alberi e i cespugli del giardino pubblico sono ancora pieni d’ombra e di notte, dalla parte del fiume una nebbia azzurrina sale sino alle case della città, qualche finestra è illuminata, si sentono i tonfi affrettati delle porte che si chiudono, e a piccoli gruppi alcuni nostri concittadini, insonnoliti ma alacri, si preparano a molte ore di giravolte stradali, di canzoni in coro, di soste nei rifugi, di merende nel bosco, d’esclamazioni ammirative davanti a una scenografia distesa di ghiaie e di rupi.
Anni or sono, non negherai d’aver partecipato anche tu a imprese del genere, non so con quanto entusiasmo: eri forse trascinato dai tuoi compagni, o speravi di star vicino a qualche ragazza e d’associarla alla minima vicenda della gita. Verso sera, durante il ritorno, le teste delle ragazze sono propense ad appoggiarsi sulla spalla di chi gli sta accanto, e il sole, il vento, le risa, le modulazioni sentimentali dei canti non mancano di favorire provvisori ma tuttavia gradevoli abbandoni.
Come a ogni retorica, è arduo sottrarsi anche a quella della montagna, che ha i suoi concetti e i suoi simboli obbligati: i fiori passano di mano in mano, le genziane, i rododendri, i ciclamini, gli edelweiss insipidi e lanosi; vanno a finire, con quei colori cupi o brillanti, nei capelli, al risvolto delle giacche, nelle cinghie degli zaini; sono pegni e ricordi che anche oggi finiscono tra le pagine d’un libro, tra i fogli di una lettera.
Le bacche di mirtillo anneriscono i denti delle ragazze, dopo che il latte ancora caldo è stato bevuto nel recinto della malga; i ciottoli intersecati da vivide pagliuzze di mica appesantiscono le tasche, ma poi, sui tavoli dei geometri e degli avvocati, saranno promossi a fermacarte, con un’indicazione di luogo e una data a lapis violetto. Per tali vie la gita estiva si prolunga nel tempo, tramutata in episodio da ricordare nell’inverno, quando le montagne si cingono di neve e proteggono la loro solitudine con rovinose valanghe.
Ma i canti, i canti soprattutto hanno una gran parte in queste peregrinazioni ai piedi delle montagne, di valico in valico: in cammino, ci sono echi da suscitare, spettrali risonanze di pareti opposte e di gole parallele; bisogna alleviare la fatica, fingerle uno scopo che non ha; e durante le soste è una maniera di passare il tempo, d’immergere i partecipanti in una vaga fantasticheria emotiva. […] Uomini e donne cercano costantemente di raggiungere una lieve ebrezza, sulla traccia crepuscolare della malinconia e della nostalgia che intridono di sé le effusioni corali.
Intorno, le montagne accondiscendono imperturbabili alla sagra festiva che s’allestisce sui loro fianchi e sulle loro cime; e gli scalatori, quando si trovano nel bel mezzo della loro inutile fatica, sospesi sopra l’abisso, attaccati con mezza unghia a un’incrinatura della roccia, sono essi che imprestano alle rupi almeno il senso d’un ostacolo da sormontare.
[…] Per questo le cartoline illustrate hanno tanta fortuna in montagna, essendone gli autentici e veritieri ritratti; il taglio scenografico della veduta, i colori in perenne disaccordo tonale, l’assurdità prospettica delle rupi, che sembrano lontane anche se vicinissime, ecco i caratteri propri al paesaggio di montagna e non soltanto, come si crede, alla sua riproduzione meccanica. Questo non impedisce alle rosse autocorriere domenicali di percorrere diligentemente i nastri delle strade distese sui pendii, di sostare nei luoghi panoramici, di traversare paesi che sembrano finti, o inventati dalla mediocre e minuziosa fantasia dei favolisti di professione, con quei campanili aguzzi, quei balconi di legno intagliato a cuori e a losanghe, quei gerani rossi tra bianche tendine infiocchettate alle finestre. In seno alla gravità della montagna i gitanti cercano proprio quest’operetta popolare e infantile dei villaggi e degli alberghi, dei fienili e dei rifugi.
Mi guastai la villeggiatura, una volta, per aver affettuosamente definito «famosa pozzanghera» un laghetto celebrato in tutti i manuali di viaggio e in tutti i variopinti manifesti che s’affiggono alle pareti delle stazioni ferroviarie; gli indigeni mi guadarono come uno straniero empio, i miei compagni di gita mi giudicarono un uomo freddo, senza cuore.
Come vedi, anche in questa materia non è possibile rifiutare impunemente le convenzioni; una volta salito in un’autocorriera della domenica, dovrai fare tutto quello che gli altri fanno, estasiarti ai fiori di monte, al polverìo malsano delle cascate, all’odore di sego dei rifugi, alla firma sul registro dei visitatori, preceduta da una frase ammirativa, e soprattutto agli insopportabili canti corali, che t’accompagneranno sino al ritorno in città.