DOPO LA CRISI: QUANDO DA RICCHI SI DIVENTA POVERI. E LE CATTIVE RICETTE PER USCIRNE

povero.jpegDa poveri a ricchi e ritorno: è l’amara parabola che stiamo vivendo noi italiani (e non solo), vista l’intensità della crisi finanziaria in atto. Nell’accavallarsi di notizie preoccupanti, di grafici, di analisi su Btp, spread, default eccetera, è ormai chiaro infatti che il benessere accumulato negli ultimi decenni, almeno in Occidente, si è in parte eclissato, e in parte è finito in altre mani: gente che lavora più di noi guadagnando meno, in altre parti del mondo, oppure gente che specula sulle nostre ingenuità, individuali e collettive. E il futuro che buona parte di noi si attendeva sereno, al riparo di una casa in proprietà, una pensione, l’assistenza sanitaria gratuita e magari un piccolo gruzzolo in banca, rischia di essere drammaticamente diverso. Non parliamo poi di quello dei nostri figli. 

Ma c’è di peggio, a mio parere: la ricetta scelta per uscirne appare drammaticamente simile a quella che ci ha portato in questa situazione, come dirò più avanti.


DALL’UNITÀ A OGGI SIAMO 13 VOLTE PIU’ RICCHI

Da ricchi a poveri, dunque. Il contrario di quanto ci è accaduto negli ultimi 150 anni, almeno in Italia, secondo quanto è raccontato dal libro “In ricchezza e povertà” (Ed. Il Mulino, € 40), curato dall’economista Giovanni Vecchi col contributo di 16 coautori (fra i quali il senatore Nicola Rossi e l’economista veneziano Gianni Toniolo). povertà.jpeg

Ecco alcuni dati contenuti nel volume. Prendiamo il reddito medio: in un secolo e mezzo quello italiano è cresciuto di 13 volte, più degli Stati Uniti (12 volte), di Francia e Germania (11 volte) e molto più del Regno Unito (7 volte), anche se meno di Spagna e Irlanda (15 e 16 volte rispettivamente) e molto meno della Scandinavia (quasi 20). E questo ha comportato modifiche notevoli nel nostro regime alimentare (ingurgitiamo oltre 1100 calorie in più, anche se ce ne servirebbero 300 in meno), e di conseguenza nella nostra conformazione fisica (siamo cresciuti di oltre 12 centimetri), e poi nell’accesso all’istruzione e nel tasso di disuguaglianza sociale. Un bambino che nasceva nel 1861 poteva dirsi fortunato se arrivava a vedere l’alba del 1990: la speranza di vita, che oggi è di 82 anni, all’epoca era limitata a 29, appena pochi mesi più che in epoca romana; la mortalità infantile nell’anno dell’Unità d’Italia era a quota 228 (oggi è a 3.6), e quasi 7 bambini su 10 (oltre 8 i maschi) lavorominor.jpegerano costretti a lavorare per integrare un reddito familiare paragonabile a quello dell’Africa odierna (4 italiani su 10 non riuscivano neppure a soddisfare i propri bisogni essenziali); a saper leggere era un italiano su 4, ogni insegnante doveva gestire una classe di 36 alunni, saliti a oltre 44 nel 1931, e poi scesi a 9.6 nel 2001 (mancano i dati sul dopo-Gelmini).
Analizzando “il benessere degli italiani dall’Unità a oggi” il libro dimostra che l’unificazione nazionale è stata il motore dello sviluppo economico, come afferma Giuliano Amato nella prefazione. «Gli staterelli preunitari avrebbero dovuto unirsi in un’unione doganale, ma senza unione politica non ci sarebbero stati gli stessi risultati».

MA 15 MILIONI DI ITALIANI RISCHIANO DI DIVENTARE POVERI

 Al di là delle cifre però il volume è interessante perché analizza un concetto come la cosiddetta vulnerabilità, che è particolarmente utile per capire che cosa potrebbe succederci nei prossimi mesi.

«La vulnerabilità – spiega l’autore, che ho intervistato per il Gazzettino – va oltre il dato relativo alla povertà, perché quando si contano i poveri è già tardi, ma cerca di analizzare cosa accade nelle fasce sociali a rischio di impoverimento; si tratta quindi di un parametro che può ispirare politiche preventive da parte dei governi, qualora decidessero di tenerne conto». Sì, perché il problema è che questo parametro, disponibile solo dal 1985 in poi, a livello macro è rimasto più o meno stazionario per anni, salvo peggiorare negli ultimi tempi, per i quali però mancano i dati dell’Istat: sul 60% della popolazione appartenente alle fasce medie di reddito, quella vulnerabile raggiunge il 35-40%, che tradotto in termini numerici significa 12-15 milioni di potenziali poveri. «Se però andiamo ad analizzare il dato per aree geografiche, scopriamo che la vulnerabilità al Sud raggiunge il 40% della popolazione complessiva (addirittura una persona su due nelle isole), mentre a Nordest si ferma a una persona su cinque. Il problema è che da voi – argomenta Vecchi – l’economia cresce di più, ma non riesce a distribuire il reddito equamente, o almeno non ai livelli di altre regioni come Emilia e Toscana».

SE CRESCONO LE DISUGUAGLIANZE SI FERMA LA CRESCITA ECONOMICA

Ed ecco un punto che dovrebbe far riflettere i fautori delle politiche neo-liberiste, che dall’America influenzano anche le azioni dei governi europei, in primis il nostro (si pensi all’enfasi sul superamento dell’art. 41 della Costituzione): lo studio della corsa al benessere che ha accompagnato i nostri 150 anni di storia nazionale dimostra inequivocabilmente che lo sviluppo va di pari passo con il superamento delle disuguaglianze sociali, il cui tasso è andato calando dal 50.4 del 1861 al 29.7 del 1982.

«Poi questo meccanismo positivo si è inceppato – spiega il professor Vecchi – e le disuguaglianze hanno ripreso, sia pure lentamente, a crescere, sfiorando oggi quota 33. E da vent’anni a questa parte si è bloccato anche il processo di crescita economica, fenomeno ben noto a tutti e di cui tanto si parla oggi. Così non abbiamo avuto né uguaglianza né sviluppo. Ma aumento delle disuguaglianze sociali e mancata crescita economica hanno come effetto obbligato e immediato l’aumento della povertà».

IL FALLIMENTO DELLE POLITICHE LIBERISTE E L’INSIGNIFICANZA POLITICA DEI POVERI

poveriricchi.jpegÈ il meccanismo che abbiamo visto all’opera in America durante gli anni di Bush, quando sono state ridotte le tasse ai ricchi confidando che se essi si fossero arricchiti di più avrebbero diffuso benessere in tutto il paese e distribuito graziosamente più aiuti ai poveri (capitalismo compassionevole): i risultati si sono visti, ma non è bastato, perché si sta continuando ancora su questa strada.

Ma perché i poveri non si attivano elettoralmente per difendere un presidente come Obama che qualcosa per loro stava cercando di fare? Perché anche in Europa guardano alle forze populiste e di destra che fanno il contrario dei loro interessi?

“La partecipazione politica dei poveri è sempre limitata dalla loro scarsa capacità di farsi sentire – è la risposta del prof. Vecchi – e dall’estrema facilità – determinata dal basso livello di istruzione – con cui essi perdono le loro motivazioni. A fronte di questo c’è l’enorme influenza che riescono a esercitare, a partire dai media, i grandi gruppi di potere grazie ai loro mezzi economici. E per una classe politica non all’altezza delle sfide epocali che ha di fronte ma attenta al calcolo elettorale a breve termine, è sempre più facile ascoltare la voce delle lobbies piuttosto che quella dei poveri”.

DOPO LA CRISI: QUANDO DA RICCHI SI DIVENTA POVERI. E LE CATTIVE RICETTE PER USCIRNEultima modifica: 2011-08-10T12:02:00+02:00da sergiofrigo
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