Le questioni medio-orientali – col micidiale accostamento delle stragi anticristiane in Egitto e della morte del nostro alpino in Afghanistan – tornano a far esplodere brutalmente alcune contraddizioni di carattere etico-politico nelle nostre società, nei gruppi politici, persino nel profondo del nostro animo.
Si tratta di due eventi apparentemente lontani, ma in realtà intimamente e drammaticamente legati nell’interpellare il nostro modo di rapportarci con l’islam radicale, la nostra concezione di sicurezza, la qualità e quantità di sacrifici che siamo disposti a sopportare per ottenerla. In altre parole, le stragi dei cristiani e la morte di Matteo Miotto mettono duramente alla prova – se messe fra loro in collegamento, come credo debba avvenire – la qualità della fermezza di cui si ammantano le società occidentali in deficit di sicurezza, e la compatibilità con essa del pacifismo che da tempo permea in profondità il nostro modello sociale. Dimostrandoci, purtroppo, che l’una e l’altro in questo momento non sono compatibili.
LE SOFFERENZE DI NOI ANTICHI OBIETTORI
Da antico obiettore di coscienza dico questo con grande sofferenza, e con pari sofferenza mi permetto di evidenziare il disagio di un altro antico obiettore che ha un ruolo di primissimo piano nella vita politica veneta e italiana, il governatore Luca Zaia. Si, proprio lui, che nei giorni scorsi ha dichiarato: ”Gli impegni internazionali vanno rispettati, ma si faccia di tutto per riportare a casa i nostri militari. Da quando sono presidente di questa regione, è il quinto alpino veneto che perde la vita in Afghanistan. Credo che sia giunto il momento di fare un’approfondita riflessione”. E che ieri invece, ai funerali di Matteo, si è finalmente ricordato di essere stato fra i ministri che a suo tempo hanno approvato la missione militare italiana in Afghanistan.
Con emozione ancora maggiore un’altra esponente leghista, Maria Rita Busetti, sindaco di Thiene, paese natale di Matteo, nei giorni scorsi aveva chiesto al governo: ”I nostri ragazzi rimandateceli a casa perché quella dell’Afghanistan non è una guerra per la pace. Matteo ce l’ha ucciso il terrorismo islamico. Credo che nessun altro ragazzo possa essere sacrificato a questo terrorismo”.
COME RISPONDERE AL FONDAMENTALISMO?
Cosa si può dire di diverso e di più adeguato rispetto a questa tragedia? Eppure la politica ce lo chiede. Meglio, ce lo chiedono i 21 cristiani copti uccisi in Egitto, i loro familiari e compagni di fede, le altre centinaia di vittime cadute sotto i colpi degli jihadisti dall’Africa sub sahariana all’estremo oriente, le comunità cristiane costrette alla clandestinità, lontano dagli occhi indifferenti dell’Europa. Quello che si sta verificando in quei paesi è un vero e proprio genocidio, che assieme alle vite di tanti innocenti distrugge la libertà religiosa, la speranza nella convivenza inter-religiosa e ogni possibile evoluzione in senso democratico di quelle società; alla lunga, inoltre – anche se preferiamo dimenticarcene – rischia di mettere in pericolo i nostri stessi valori dentro le nostre stesse società.
I RISCHI CHE CORRE L’EUROPA
Se l’islam radicale dovesse vincere in Iraq, in Afghanistan, nel Nord-Africa, cosa gli impedirebbe di provarci nel resto dell’Asia e in Europa? E come potrebbero opporsi le nostre società invecchiate, distratte, impigrite da un benessere sempre più labile e con una tempra morale sempre più sfibrata?
Attenzione, ho ben presente che la risposta militare è inadeguata, foriera di nuovi scontri, dannosa per le stesse democrazie che la perseguono: ma possiamo farne a meno, sia pure mettendola in atto assieme ad altre opzioni più politiche, che valorizzino i nostri rapporti con gli islamici moderati che sono vittime dei fondamentalisti tanto quanto noi?
Mi aspetterei un po’ di lucidità e di coerenza da coloro che dalle nostre parti sbraitano contro la costruzione delle moschee e vorrebbero sottoporre ai raggi x il vicino di casa musulmano, ma sembrano non rendersi conto che se vincessero i fondamentalisti in Afghanistan e nel resto del Medio Oriente prima si moltiplicherebbero gli attentati nei nostri paesi, e nel giro di qualche decennio sarebbero le nostre chiese ad essere sostituite dalle moschee. La Lega invece continua purtroppo a crogiolarsi nella convinzione che quello che accade nella ex Jugoslavia, in Libano, in Afghanistan non ci riguardi minimamente, quasi non producesse effetti pesanti sul nostro territorio, in particolare nella forma di potenziali, consistenti nuovi flussi migratori e di una radicale riduzione della sicurezza, che è al contrario il suo cavallo di battaglia.
RIPENSARE AL NOSTRO COINVOLGIMENTO NELLE MISSIONI
Con questo non voglio dire che non si debba sottoporre a un radicale ripensamento la presenza dei nostri militari nei teatri di guerra: si deve ragionare sul senso del nostro coinvolgimento, sulle finalità delle missioni, sulle strategie a cui devono rispondere e che sono decise in primis dall’America, sulla loro adeguatezza per gli obiettivi che si prefiggono, sulla qualità della formazione e dell’armamento dei contingenti impiegati, sulle relazioni che i soldati intrattengono con le comunità in cui operano e su tutti gli altri aspetti che attengono alla tecnica militare.
Sono però soprattutto la politica e la società che devono fare i conti con la situazione che si è creata negli ultimi tempi nelle zone calde del pianeta, e devono stabilire come affrontarla. Una risposta che non sia anche militare all’aggressività dei fondamentalisti, temo però che non sarebbe adeguata.
Pronto a ricredermi se chi dice “i nostri soldati subito a casa” mi spiega come evitare che il ritorno dei militari significhi contestualmente l’arrivo di altri terroristi e un drastico peggioramento della nostra sicurezza e della qualità delle nostre democrazie.