IL GIORNALISMO DI VIAGGIO, L’EREDITÀ DI TERZANI (E L’ULTIMO LIBRO DI RUMIZ)

Giovedì a Exposcuola, alla Fiera di Padova, ho partecipato alla presentazione del libro “Storie e voci di viaggio dall’Ottocento a oggi” (a cura di Enrico Grandesso e Carlo Toniato – La Linea editrice) che raccoglie gli atti di due convegni tenutisi nel 2008 e nel 2009 a Camposampiero. Fra alcune relazioni sul Gran Tour e il viaggio nel cinema, tra le esperienze dei missionari e la musica on the road, il mio capitolo affronta il tema del giornalismo di viaggio (citando in particolare Piovene, Kapuscinski e Rumiz), e soprattutto della sua quasi totale sparizione nell’editoria moderna. Se siete abbastanza masochisti, potete leggere sotto…

terzani2.jpgCon l’occasione ho letto il libro “Tiziano Terzani. Un mondo che non esiste più”, curato dal figlio Folco ed edito da Longanesi (€ 22): libro soprattutto di fotografie dello stesso giornalista scomparso nel 2004, con brevi testi di commento recuperati dai suoi libri, dai suoi articoli e anche dagli appunti inediti. Un libro splendido, incentrato sui paesi asiatici dove lui ha vissuto, che testimonia il percorso di un grande giornalista e grande uomo, che nonostante i grandi successi professionali ha avuto sempre l’umiltà di aggiornare i suoi punti di vista venendo a contatto con le nuove realtà e soprattutto con le persone che incontrava: fino a lasciarsi coinvolgere in profondità dal cambiamento.

Durissima e dolente (visto che lui stesso ci aveva creduto) la sua critica al regime comunista cinese, che ha spazzatoTerzani3.jpg via una civiltà millenaria che Terzani cerca di documentare nei suoi ultimi retaggi: “Mi resi conto prestissimo – scrive dopo aver incontrato la gente – che il mio sogno era stato l’incubo dei cinesi”.

Ma è anche la modernità occidentale, la sua capacità devastante di commercializzare tutto, a ferire il suo animo, per la sua pervasività che ha spazzato via (o lo sta facendo) ogni residuo di diversità e di tradizione anche negli altri paesi da lui visitati, il Tibet, forse anche l’India, e naturalmente il Giappone, il paese in cui l’omologazione ha raggiunto il parossismo, chiudendo quella società “in una camicia di forza, con la sua gente sempre a recitare una parte e mai naturale”.

Alla fine Terzani trova la sua strada verso la libertà: le ultime pagine, dove è lui il protagonista delle foto scattate dalla moglie Angela, sono dedicate al suo rifugio in una baita remota dell’Himalaya (ma qualche anno dopo sarebbe morto nella sua Toscana); è l’ approdo finale di una ricerca di autenticità che gli fa scrivere, di fronte alla sua bellissima immagine mentre si allontana nel bosco coperto dalla neve, “Sento questa mia vita che sfugge, ma che non sfugge, perché è parte della stessa vita di questi alberi. Una cosa bellissima, il disfarsi della vita nel cosmo ed essere parte di tutto”.

IL GIORNALISTA VIAGGIATORE È PARTITO. PER SEMPRE?

di Sergio Frigo

 

Racconterò qui brevemente quando è nato e cos’è stato il giornalismo di viaggio, a partire dalle esperienze esemplari di tre grandi esponenti di questa branca della professione che tradizionalmente confina con la letteratura: un vicentino, Guido Piovene, un polacco, Ryszard Kapuscinski, entrambi scomparsi, e un triestino, Paolo Rumiz, che fortunatamente è vivo e vegeto e ci delizia ancora con i suoi articoli su Repubblica e con i suoi libri: di suo tra l’altro è appena uscito “Annibale”, edito da Feltrinelli, resoconto del viaggio compiuto nell’estate del 2007 per il suo giornale. Con Kapuscinski, qualche anno fa, e con Rumiz, per stendere questa relazione, ho anche avuto modo di affrontare direttamente questo tema, ricavandone l’idea di questo strano titolo: che significa che il giornalismo di viaggio, almeno come lo conosciamo tradizionalmente, è un genere che ormai rischia l’estinzione.

 Ma facciamo qualche passo indietro, anzi, molti passi: per arrivare ai primi viaggiatori narratori del passato, che in fondo sono gli antesignani dei moderni giornalisti di viaggio: Erodoto con le sue Storie, il mitico Omero, e poi Giovanni da Pian del Carpine, e naturalmente Marco Polo, Antonio Pigafetta, Sebastiano Caboto, Ambrogio Bembo, Francesco Algarotti, Giacomo Casanova. Tutti costoro in effetti hanno fatto quello che dovrebbero fare i buoni giornalisti anche oggi: vanno sul posto, vedono di persona cosa succede, incontrano protagonisti e comprimari degli eventi, tornano e raccontano. Anche molti degli artisti e letterati europei dell’Ottocento da Shelley a Byron, da Goethe a Ruskin, da Mann fino a Ezra Pound fecero lo stesso nei loro Gran Tour, che aveva come meta finale il nostro paese, di cui ci restituirono descrizioni vivide, appassionate, a volte fulminanti.

 Ma è a partire dalla seconda metà dell’Ottocento che questo andare, vedere, tornare, raccontare che abbiamo descritto sopra diventa una vera e propria professione: è il momento in cui i giornali diventano qualcosa di simile a quelli che conosciamo oggi, e quindi cominciano a pagare persone che vadano sul posto e ne scrivano per i lettori, i cosiddetti inviati. I loro reportage si alternano a volte al feuilletton, il romanzo d’appendice, che all’epoca ebbe tanta fortuna, e oggi è anch’esso praticamente sparito. In Italia a distinguersi per la qualità dei loro reportage sono ad esempio Edmondo De Amicis (“Sull’oceano”) e Guido Gozzano (“Viaggio in India”), anche se la grande scuola dei giornalisti viaggiatori è quella inglese e francese, paesi di grande tradizione coloniale.

 Caratteristica principale di questo giornalismo, come abbiamo sostenuto prima, è il fatto di essere strettamente imparentato con la letteratura, soprattutto se l’inviato non è al seguito di un grande evento di cronaca nera, su cui è essenziale la tempestività anche a scapito della qualità della scrittura, ma deve fare un reportage, cioè un articolo di ampio respiro, con molti interlocutori, diversi punti di vista e grande capacità di tenuta sul lettore, e quindi – evidentemente – un’alta qualità di scrittura.

 Ma come mai fra i personaggi citati – come Marco Polo, Antonio Pigafetta, Sebastiano Caboto, Ambrogio Bembo, Francesco Algarotti, Giacomo Casanova – molti sono veneti?

Giovanni Comisso, a sua volta viaggiatore e scrittore, sosteneva che la vocazione cosmopolita della cultura veneta deriva direttamente dall´accuratezza e dal valore letterario delle relazioni degli ambasciatori veneziani nel mondo, oltre che dalla posizione strategica delle nostre terre, all´incrocio fra vie di comunicazione e flussi commerciali e migratori tra Nord e sud d´Europa, e Occidente ed Oriente. Per questo motivo il Veneto è molto di più della “piccola patria” in cui qualcuno vorrebbe rinchiuderlo, è da sempre luogo di incontro fra gruppi e individui portatori di diverse visioni del mondo, di culture che non si chiudono nella difesa ottusa della propria identità.

Questa nostra cultura ha espresso anche in tempi recenti protagonisti di assoluto valore come Guido Piovene, Goffredo Parise, Dino Buzzati, Cesco Tomaselli. Mi soffermerò qui soprattutto sul primo, il vicentino.

 GUIDO PIOVENE

Piovene.jpgGuido Piovene, nato nel 1907 da una nobile famiglia vicentina, e scomparso a Londra nel 1974, si avvia alla carriera giornalistica da subito, ricoprendo il ruolo di inviato (in Germania) fin dalla sua prima assunzione per il quotidiano l’Ambrosiano. Passa successivamente al Corriere della Sera, per il quale lavora da corrispondente estero a Londra e a Parigi; e poi approda alla Stampa.

Ai veri e propri reportage di viaggio, che sono l’oggetto di questa trattazione, Piovene arriva nel 1953 con “De America”, realizzato dopo un anno di permanenza negli Stati Uniti, durante il quale lo scrittore riesce a conoscere la società americana dall’interno delle sue case, a tavola con le famiglie, nel profondo sud come a san Francisco o a New York. Prende contatto con movimenti religiosi, compagini politiche, sette, sindacati e comunità delle etnie più lontane, sempre indagando in profondità, cercando la verità vera e non accontentandosi di fuggevoli impressioni, ma scandagliando a fondo le contraddizioni del paese, fino a restituirne un’immagine ancor oggi di grande attualità.

Viaggiare, sosteneva lo scrittore, dovrebbe essere sempre un atto di umiltà, un gesto di conoscenza, qualcosa che dovrebbe condurre all’incontro con realtà anche distanti dalla quotidianità più frequentata.

Questo concetto dell’umiltà del giornalista va tenuto a mente, perché ritornerà anche con gli autori che esamineremo più avanti.

Di ritorno dagli Usa – tra il maggio del 1953 e l’ottobre 1956 – Piovene conduce per la Radio un’inchiesta giornalistica da Bolzano alla Sicilia sull’Italia appena uscita dalla guerra e già avviata verso il “miracolo economico”. È l’inchiesta da cui nasce nel 1957 forse il suo libro più famoso, “Viaggio in Italia”.

Siamo in un momento di passaggio per il nostro paese. Le mille Italie, i mille paesi visitati, sembrano tutti accomunati da un unico denominatore comune, che non è più quello la miseria e la fame degli italiani usciti dalla guerra, ma la spinta a ricostruire un Paese che vuole essere moderno e industriale. Piovene riesce a restituire ai luoghi e alle persone conosciute nel corso di questo viaggio, questa tensione: sia che si parli della trasformazione in atto nella pianura Padana, sia che descriva in poche righe, come in un’istantanea, i grandi manager come Enrico Mattei e la sua battaglia contro i monopoli dell’energia, l’energia eccitata di Enzo Ferrari, l’industriale Piaggio che mangia, solo, nel suo yacht attraccato al porticciolo di Portofino.

Alcune pagine di questo libro sono assolutamente datate, anzi, delineano prospettive che si sono radicalmente rovesciate, come nelle prime pagine sull’Alto Adige in cui ipotizza un declino dell’elemento etnico germanico. Ma di Bolzano lo scrittore sa cogliere in profondità gli aspetti meno evidenti, e leggere con originalità quelli che sono davanti agli occhi di tutti, come nella vivacissima descrizione del mercato (“Di fronte ai grappoli ampollosi e vetrosi di uva dorata e violetta non riuscivo a trovare altri vocaboli di quelli con cui si parla della poesia secentesca; stranezza, meraviglia, iperbole. Ma, in questa terra di Canaan d cinematografo, v’è pure il gusto per l’abnorme tedesco, un abnorme preciso e quasi scientifico…”), che ci verrà utile nelle prossime pagine per confrontarla con un brano sullo stesso tema di Kapuscinski.

Altre pagine di Piovene potrebbero essere state scritte appena ieri, come in un notissimo brano sul degrado ambientale nella Marca Trevigiana e nel resto del paese (“Il paesaggio è imbruttito da costruzioni volgari e da nuove usanze (…) Tradizionale è la cornice, tradizionali i sentimenti accettati per abitudine; non è detto però che gli abitanti li sentano in modo attivo… Si devono a questo, ritengo, le brutture edilizie perpetrate per speculazione, ma soprattutto per mancanza di affetto”). O in un altro brano, riferito al suo approdo a Vicenza dopo le sue esperienze internazionali, da cui emerge dello scrittore la sua caratteristica di letterato perennemente in bilico fra “vicentinità” e cosmopolitismo, fra territorio e spostamento, Ulisse inquieto che è contento di perdersi e vuole e non vuole tornare.

Sono pagine che illustrano bene le qualità eccelse della sua prosa, che è profondamente letteraria, artistica, anche se nasce dalla professione di giornalista, che lui cercava però in tutti i modi di eludere. Ma si trattava in lui di due attività intimamente legate: Piovene era innanzitutto uno scrittore al quale, com´era capitato a Dickens, Dostoevskij, Tolstoj, era successo di dover prestare il suo talento letterario al giornalismo. Ma da questo nasce un contrasto molto interessante, in cui noi possiamo apprezzare, ad esempio – come mi ha fatto notare Cesare De Michelis in un’intervista sul recente centenario, passato quasi inosservato -, le acute descrizioni delle cose che resistono nel tempo; mentre sono più difficili da cogliere quelle caduche e sfuggenti: nelle quali si manifesta, tra l´altro, la sua incertezza ideologica e che lui stesso definiva “malafede”, e che lo portò prima ad aderire al fascismo e anche a sostenere le leggi razziali, e più tardi addirittura a flirtare col comunismo, salvo ritrattare ancora nell’ultima parte della sua vita, quando aderì all’iniziativa di Indro Montanelli che fondò il Giornale.

Enzo Bettiza, suo amico, collega e biografo, nonchè presidente della giuria che assegna il Premio a lui dedicato, a Vicenza, dice che tutto questo si deve al fatto che Piovene era un uomo estremamente complesso, con le contraddizioni tipiche di un grande intellettuale dell´epoca: c´erano in lui paure e ombre, ma al tempo stesso grandi impennate di coraggio, e la capacità di fare una dura autocritica quando capiva di aver sbagliato

Chiudo questa parte citandovi un aneddoto che mi ha raccontato lo stesso Enzo Bettiza, a proposito del rapporto fra Piovene e un altro grande giornalista e scrittore viaggiatore vicentino, Goffredo Parise. Verso di lui Piovene, che pure lo stimava, manteneva il retaggio del rapporto tra il patrizio veneto e il plebeo: gli metteva una certa ansia, ad esempio, la proposta che gli face per un certo periodo Parise di farsi seppellire vicini, nel cimitero di Vicenza. «No capisso – diceva – a ognun la su´ tomba, e che ognun pensa a la su´ morte».

 RYSZARD KAPUSCINSKI

kapuscinski.jpgE passo ora al giornalista, scrittore e poeta polacco, Ryszard Kapuscinski, nato in realtà nel 1932 a Pinsk, oggi Bielorussia, nel 1932, e scomparso nel 2007.

E vorrei partire proprio con un brano sul suo arrivo ad Accra, nel Ghana, per confrontare la sua scrittura con quella di Piovene, citata prima a proposito del mercato di Bolzano. Non sono molti anni di differenza, perché queste righe sono scritte nel 1958, all’inizio del suo libro “Ebano”: “Già sulla scaletta dell’aereo ci viene incontro un’altra novità: l’odore dei tropici (…). È un odore di corpo surriscaldato e di pesce essicato, di carne ancata a male e di cassava, di fiori freschi e di alghe fermentate (…) Un odore che ci arriverà dai vicini palmizi, scaturirà dalla terra infuocata, aleggerà sui rigagnoli maleodoranti della città”).

Si noterà che alle metafore, alle analisi, al ritratto fotografico di Piovene, corrisponde un calarsi pieno e totale di Kapuscinski, nella realtà che sta descrivendo, di cui non leggiamo solo una descrizione, ma sentiamo anche i rumori e gli odori, percepiamo il malessere o le piacevolezze. Un’adesione così totale dello scrittore alla realtà che avrebbe permesso al suo amico e vorremmo dire allievo Paolo Rumiz di definirlo, qualche anno dopo, “Infiltrato Speciale”. Non che questo significhi, nel giornalista polacco, semplice colorismo, tutt’altro: solo che in lui, in luogo del quadro dipinto, analizzato e decostruito, abbiamo un puzzle altrettanto completo, ma molto più vivace e moderno, costruito un po’ alla volta, con tanti abbozzi successivi.

Per Kapuscinskiil primo servizio giornalistico importante, nel 1956, fu un reportage dall’India, dove poi fu costretto a rimanere ben sei mesi perché la crisi di Suez impediva il ritorno alla sua nave. L’anno dopo sarà la volta di un viaggio in Cina, prime tappe di un percorso che l’avrebbe portato nei cinquant’anni successivi in tutto il mondo, in particolare in Africa e in America Latina e sui fronti più caldi dei conflitti, per conto della Pap, l’agenzia di stampa nazionale. Questa sua situazione di presunto privilegio venne enfatizzata lo scorso anno, morto da poco lo scrittore, da una campagna di stampa alimentata dall’”operazione trasparenz” lanciata dai gemelli Kascinski, allora entrambi ai vertici dello Stato: qualcuno ipotizzò che per poter andarsene in giro per il mondo Kapuscinski avesse fatto la spia sui paesi che visitava e le persone che incontrava. Un’accusa che sta riemergendo anche negli ultimi tempi in una nuova biografia. Prima di morire egli aveva in qualche modo già risposto, sostenendo, con l’ironia che lo caratterizzava, che per far prima ed evitare problemi a chiunque egli consegnava effettivamente dei rapporti ai servizi segreti, ma infarciva i suoi resoconti con pezzi copiati di sana pianta dalle guide turistiche. E in un’altra occasione, più seriamente, aveva spiegato anche che “come giornalista d’agenzia devi scrivere quello che vedi senza censura alcuna”, e che in quel senso Kapuscinski2.jpgeffettivamente i suoi pezzi integrali costituivano delle informazioni privilegiate per gli alti dirigenti del partito.

Accanto ai reportage, di cui fu maestro indiscusso, Kapuscinski cominciò ben presto a sfornare anche splendidi libri, come “Il Negus” (che all’inizio degli anni ’80 gli dette fama internazionale), “Ebano”, “Imperium” (sull’Urss alla vigilia del crollo), “La prima guerra del football”, e “In viaggio con Erodoto” e “Autoritratto di un reporter”, in cui ricorda i suoi reportages, riflette sul suo lavoro, svela i segreti del suo essere giornalista: in primis – accanto al rispetto totale per la verità, alla curiosità per ogni diversità, alla massima cura per la scrittura, affinata nel confronto con i grandi maestri e i grandi poeti – la capacità di «mettersi nelle scarpe dell’altro», cioè di condividere la realtà di chi doveva raccontare, e l’estrema disponibilità umana: ecco l’umiltà di cui si diceva prima a proposito di Piovene.

Infatti quello che caratterizzava K. più di ogni altro era che considerava il cinico inadatto a svolgere la professione giornalistica: il giornalista, per lui, deve essere buono, interessato soprattutto all’incontro con l’altro. «Credo che per fare del buon giornalismo – sosteneva – si debba innanzitutto essere degli uomini buoni. I cattivi non possono essere buoni giornalisti. Solo l’uomo buono cerca di comprendere gli altri, le loro intenzioni, la loro fede, i loro interessi e le loro tragedie. E di diventare subito, fin dal primo momento, una parte del loro destino».

Sul viaggiare per scrivere diceva che il viaggio a scopo di reportage esige un surplus emotivo e molta passione, e ricordava che a ogni servizio all’estero arrivava a perdere fino a dieci chili di peso. «Consideriamo la nostra professione non solo un lavoro – aggiunse ricevendo il premio Ilaria Alpi 2006 alla carriera – ma una missione per la ricerca della verità, che a volte richiede il sacrificio più alto».

Per quanto riguarda il suo modo di fare il giornalista, a Udine, al conferimento della Laurea Honoris Causa, disse di essere un seguace della scuola francese de Les Annales, e dunque portato a valutare gli influssi dei fenomeni di lunga durata sugli accadimenti contingenti. Poi aggiungeva; “Mi lascio guidare dal mio intuito nel raccontare la situazione di un paese che attraverso. Ho sempre sentito di poter meglio decifrare le cose guardando ai margini, insistendo sui contorni. Certe storie apparentemente laterali ci fanno comprendere molto di più la realtà».

A Udine, all’editrice Forum, K. scelse di affidare la pubblicazione delle sue poesie, una delle quali recita una specie di epitaffio: “Trovare la parola giusta / che sia nel pieno delle forze / che sia tranquilla / non sia isterica / non abbia la febbre / non sia in depressione / in essa si può confidare / trovare una parola pura / che non abbia denigrato…” E questa è anche la sua lezione a chi voglia ancora fare il giornalista.

PAOLO RUMIZ 

rumiz5.jpgE veniamo al triestino Paolo Rumiz, classe 47, che si è autodefinito, a causa degli incroci su cui sono fondate le sue origini famigliari, e con una certa civetteria, un “bastardo di frontiera”. Prima inviato del Piccolo, poi di Repubblica, ha cominciato occupandosi della guerra nell´ex Jugoslavia, coi libri “Maschere per un massacro” e “La linea dei mirtilli”, e quindi esplorando “La secessione leggera” che interessa il Nordest.

Rumiz compone i suoi articoli e i suoi libri battendo i luoghi vicini o lontani su mezzi eccentrici, come la bicicletta, il treno, una chiatta, una vecchia topolino – dirigendosi soprattutto verso Oriente, come nel libro omonimo: dove inforca la bicicletta e impugna penna e taccuino – lo fa davvero quasi in contemporanea… sprezzante del pericolo – e ci consegna un libro di viaggio che è al tempo stesso una scanzonata e avvincente cavalcata attraverso svariati confini e una acuta riflessione su “noi” e “loro”, che rivela quanto di Oriente c´è dentro di noi, seppure sepolto da decenni di rimozioni.

“Nel centro e nell’est dell’Europa – ci ha dichiarato qualche tempo fa il giornalista – la prima sensazione è che gli abitanti si sentono di appartenere al nostro mondo, anche se noi non li percepiamo come tali. Noi ora guardiamo a un bulgaro o a un turco europeo come a qualcuno che non ha niente a che fare con noi, e questo è allarmante”. Una sensazione che può confermare anche chi scrive, ricavata da un recente viaggio che ha toccato Bulgaria e soprattutto la Macedonia, dove è fortissima la sensazione che quei popoli guardino a noi italiani come a un faro di civiltà, con ammirazione e affetto, molto imbarazzanti rispetto alla sufficienza e al sospetto con cui li trattiamo noi.

Ma vale anche per la Romania, rispetto all’eredità romana, per non dire della Croazia, in Istria e in Dalmazia, dove invece è fortissimo il ricordo e la nostalgia della presenza storica di Venezia.

La bicicletta, abbiamo detto: in Rumiz si propone come il mezzo più adeguato: muovendosi con lentezza permette di vedere le cose da vicino, ma al tempo si rivela una vera e propria “macchina per pensare”. Accade lo stesso anche con un buon libro; che in più, in questo caso, ti mette addosso un´irresistibile voglia di prendere su la “due ruote” e di andare. Verso Oriente, naturalmente.

Rumiz è costituzionalmente ostile alle semplificazioni; e nella sua inesausta curiosità non sopporta le chiusure etniche, gli steccati e le barriere, che trova funzionali agli assetti politico-economici dei nuovi poteri globali. Illuminanti le sue lacrime dopo l´incontro con padre Alex Zanotelli, quando – dopo aver pedalato fra Trieste e Vienna; dopo aver viaggiato in treno da Trieste a Kiev e da Berlino a Instanbul, dopo aver navigato il Danubio in chiatta, riapproda all´Adriatico e al Nordest per scoprirsi quasi prigioniero di uno “stomaco immenso che macina ogni valore”. Per lui viaggiare significa al contrario allargare la propria Heimat, ed è un tutt´uno col narrare e col vivere.

Ultimamente di Rumiz abbiamo letto un lungo reportage, ricco di umorismo, da nord a sud lungo i confini della vecchia Europa, dalla Finlandia a Istanbul attraverso una decina di stati ex sovietici, e poi un bellissimo reportage sul Polo Nord dove si stanno sciogliendo i ghiacci.

Ma Rumiz non deve sempre andare così lontano per farci vedere cose inedite. “La leggenda dei monti naviganti”, libro dello scorso anno, dimostra che per trovare posti nuovi basta semplicemente saper osservare quello che abbiamo dietro l’angolo, proprio nel nostro paese, e in particolare nelle sue zone montane. Ci vuole solo uno sguardo diverso, e la pazienza di lasciare l’autostrada e addentrarsi fra stradine e vallate, che a volte vivono la loro vita appartata e diversa a poche centinaia di metri dai piloni dei grandi flussi di traffico, e ad anni luce di distanza dagli occhi delle televisioni. Un viaggio, di cui ha scritto prima su Repubblica, affrontato “con rabbia e meraviglia. Meraviglia per la fiabesca bellezza del paesaggio umano e naturale; rabbia per il potere che o ignora”.

In questo viaggio egli ha riscoperto la nostra identità nazionale, fondata sulle cento città, ma anche sul loro secolare taglieggiamento nei confronti del contado e dei suoi abitanti, definiti villani o buzzurri e ridotti al silenzio. Non a caso è un Paese, il nostro, composto per metà da territori montani, su cui si appoggia il nostro equilibrio ambientale, ma che non ha neanche un ministro proveniente da quelle aree?

Il suo viaggio nell´Italia montanara sembra un tuffo nel passato, ma dice Rumiz che tutti i suoi viaggi lo sono: “Anche quando attraversavo l´Anatolia o l´Afghanistan vedevo nelle facce delle persone le rughe dei miei nonni, o nei bambini il me stesso di quell´età. Ma questo mondo perduto è in realtà più presente e vivo che mai”.

“C´è in Italia un´enorme quantità di paesi dai nomi pieni di fascino, come Barbagelata, Pietralba… Sono nomi che conservano la magia di un luogo, assieme alle persone che hanno scelto di continuare (o di tornare) a viverci, veri e propri “giardinieri di Dio”, garanti di equilibri millenari contro cui si sono accaniti tutti i potenti di questa nazione. E sono stati soprattutto gli Appennini, che sono come le Alpi di cinquant´anni fa, a riservarmi le maggiori sorprese”.

Fra le sorprese che ci rivela questo libro c’è un incontro che ci riporta a Kapuscinski, e all’Alto Adige di Piovene che citavo all’inizio, con cui chiudiamo il cerchio, prima di affrontare l’ultima parte del nostro discorso, incentrato sulla crisi di questo tipo di giornalismo. “Il lupo solitario si sporge sulla forra dell’Isarco, guarda il fiume gonfio ottocento metri più in basso. Sta in piedi sotto il cielo grigio, su un prato che declina come una pista di deltaplani. Ha scarpe grosse, pelo arruffato, occhi tartari (…). È questa l’ultima immagine che conservo di Ryszard Kapuscinski – il più grande reporter del dopoguerra -, catturata poco prima della sua morte a Varsavia (…) Scendiamo a piedi verso la fattoria Seberg, per incontrare alcuni studenti trentini che hanno lavorato un anno sui suoi libri (…) Chiede dei ragazzi, dei loro sogni; li bersaglia di domande, soprattutto li esorta a stare tra i poveri. “Non potete ignorarli, se volete fare questo mestiere. I poveri sono l’ottanta per cento del pianeta, e i più sfortunati sono i bambini. Ricchi, supernutriti e annoiati da una parte. Sofferenti e infelici dall’altra. Di tutte le porcherie del mondo, questa è l’ingiustizia che mi offende di più””.

 Rumiz mi ha detto, nel corso di un’intervista, di sentirsi il giornalista più fortunato del mondo, perché il suo giornale gli consente di muoversi liberamente più o meno dovunque, e gli assicura poi lo spazio per raccontare: opportunità che lui usa per fare di se stesso una specie di stetoscopio di un mondo minore. Ed è forse l’unico rimasto con questo privilegio, che gli consente di sfuggire alla schiavitù degli spazi e dei tempi limitati, e delle notizie stereotipate, che costituiscono il grosso dell’informazione. Ha aggiunto che la cosa importante non è il viaggio in sé, ma gli incontri che si fanno, e che dal punto di vista dello stile il suo è un mix di descrizione oggettiva del contesto e di impressione soggettiva, il racconto anche del come e del perché sei arrivato fino a un dato posto, e poi l’ascolto non antagonista delle persone, da insider come Kapuscinski appunto. E infatti i suoi migliori pezzi nascono dallo scambio e dalla condivisione con le persone.

UN GENERE IN VIA DI SPARIZIONE

A proposito di questo genere giornalistico comunque lo stesso maestro polacco raccontava, in un incontro a Udine, che esso sta sparendo dai giornali, tanto è vero che lui, in quanto componente di una giuria di un premio internazionale dedicato al reportage, sosteneva che negli ultimi anni avevano premiato solo libri, perché nei giornali non c’era più nulla che lo meritasse.

Purtroppo la crisi del reportage è però solo la spia di una crisi ben più generale del mondo della carta stampata, che si sta manifestando con sempre maggior virulenza in tutto il mondo, a partire dagli Stati Uniti che anche in questo rischiano di essere avanguardia mondiale. Ma questo è un altro discorso, che ci porterebbe ancor più lontano dei nostri giornalisti-viaggiatori.

(da “Storie e voci di viaggio dall’Ottocento a oggi”)

A PROPOSITO…

 L’ULTIMA DI RUMIZ: UN LIBRO IN ENDECASILLABI

Rumiz4.jpgPaolo Rumiz scommette sulla forza delle grandi storie e si affida al ritmo del verso, della ballata. Ne esce un romanzo-canzone singolare, fascinoso, avvolgente come una storia narrata intorno al fuoco. Racconta di Max e Masa, e del loro amore. Maximilian von Altenberg, ingegnere austriaco, viene mandato a Sarajevo per un sopralluogo nell’inverno del ’97. Un amico gli presenta la misteriosa Masa Dizdarevic´, “occhio tartaro e femori lunghi”, austera e selvaggia, splendida e inaccessibile, vedova e divorziata, due figlie che vivono lontane da lei. Scatta qualcosa. Un’attrazione potente che però non ha il tempo di concretizzarsi. Max torna in patria e, per quanto faccia, prima di ritrovarla passano tre anni. Sono i tre anni fatidici di cui parlava “La gialla cotogna di Istanbul”, la canzone d’amore che Masa gli ha cantato. Masa ora è malata, ma l’amore finalmente si accende. Da lì in poi si leva un vento che muove le anime e i sensi, che strappa lacrime e sogni. Da lì in poi comincia un’avventura che porta Max nei luoghi magici di Masa, in un viaggio che è rito, scoperta e resurrezione.

IL GIORNALISMO DI VIAGGIO, L’EREDITÀ DI TERZANI (E L’ULTIMO LIBRO DI RUMIZ)ultima modifica: 2010-11-14T16:37:43+01:00da sergiofrigo
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