IL SERGENTE, GLI ZINGARI E LA “COMPAESANITA'”

Stern.jpegIeri vi avevo anticipato una riflessione sui rapporti della nostra società con i rom (vedi due post fa), che spesso con i loro atteggiamenti sembrano fare di tutto per farsi odiare. Ricordavo di averne scritto qualcosa, ma non ricordavo dove né quando. C’è voluta una lunga ricerca per venirne a capo, ma alla fine ce l’ho fatta, e ne è emersa anche una felice coincidenza. Avevo parlato di Rom parlando di Mario Rigoni Stern, all’indomani della sua morte. Perciò sono felice di riproporvi oggi, secondo anniversario della scomparsa dello scrittore mio compaesano, questo articolo scritto nell’estate del 2008 per Nordesteuropa.it.

E’ un omaggio al Sergente, ma anche alla giovane nomade picchiata a sangue nei giorni scorsi a Torino perché chiedeva la carità, e al suo bambino che a causa dell’aggressione non vedrà mai la luce. (con una piccola chiosa: quanto spazio e quanta indignazione ci sarebbero stati sui giornali, in televisione, nelle discussioni politiche se il picchiatore fosse stato uno zingaro, e la vittima una donna italiana incinta?)

Rigoni Stern: «Siamo tutti compaesani»
di Sergio Frigo*

Credo di essere facile profeta ipotizzando che quando leggerete queste righe, alla ripresa d’autunno, saranno tornate d’attualità (se mai saranno state messe tra parentesi) tutte le questioni legate anche solo strumentalmente alla sicurezza: l’immigrazione, le impronte ai rom, la moschea di Padova e la “non moschea” di Treviso, i progettati villaggi per i sinti di Venezia e di Padova: tutti temi su cui si erano scatenate le polemiche già prima dell’estate, e che hanno rivelato una volta di più – prima ancora dell’esistenza o meno di un problema reale – la paura “a priori” che inquina la nostra vita sociale: una paura seminata a piene mani dai media (per mere ragioni diffusionali) e coltivata e mietuta con successo soprattutto dalla Lega, che nella chiusura a oltranza a ogni diversità ha individuato la cura palliativa alla nostra insicurezza, provocata in realtà dalla disgregazione del nostro habitat sociale e dall’irruzione in esso delle economie e delle culture globalizzate.

In realtà piuttosto di chiuderci a riccio, dovremmo tutelare quei residui di diversità antropologica e culturale di cui sono portatori, ad esempio, le comunità dei rom e dei sinti che vivono tra di noi, laddove esse rispettino le regole di base della convivenza civile, così come ci mobilitiamo per difendere la biodiversità naturale minacciata dalla modernità: in particolare, piuttosto che costringere le loro famiglie ad andare a vivere negli appartamenti dell’edilizia popolare, come predica il centro-destra (vorremmo poi vederne la reazione quando esse conquistassero la vetta delle graduatorie Ater!), andrebbe esaudita la loro aspirazione a uno stile di vita comunitario che si manifesta nella scelta abitativa dei villaggi, a Mestre come a Padova.

Fatto salvo il rispetto dei diritti femminili e dei minori, il loro modello di famiglia – allargata e/o patriarcale – dovrebbe essere tutelato in quanto espressione di una modalità antica e originale di convivenza, che cerca di coniugare retaggi del passato e modernità, autonomia e comunitarismo, indicandoci un modello di convivenza alternativi alla stanca famiglia mononucleare.

È stato ragionando su questi temi che mi è tornata alla mente una bella pagina dello scrittore altopianese Mario Rigoni Stern (scomparso a giugno) in cui egli raccontava con rimpianto di una sua antica frequentazione con una mini-tribù di nomadi, ai tempi in cui lavorava come giovane impiegato all’Ufficio Imposte di Arzignano e di come avesse passato assieme a loro serate di grande amicizia e calore. Rigoni Stern era uomo saldo e orgoglioso come pochi nella propria appartenenza identitaria e insieme altrettanto aperto al mondo e alla diversità. La sua piccola patria era in realtà universale, aveva le porte spalancate per tutti coloro che condividevano con lui la purezza di cuore, l’amore per l’uomo, il rispetto per la natura. Tutti costoro erano per lui “compaesani”, come mi ricordò una decina di anni fa inviandomi gli auguri per la nascita della rivista di relazioni interculturali “Cittadini dappertutto” che avevo appena fondato. Auguri che qui ripropongo, perché mi sembrano il più fecondo dei testamenti spirituali, in quest’epoca di incertezza e paura.

«Al mondo siamo tutti paesani, scrissi in un tempo molto lontano, quando una tradotta nel cuore dell’inverno più freddo della storia (1941-42) mi portava verso il fronte russo. Avevo incontrato un “compaesano” polacco che nel 1918, appena finita la Grande Guerra, era stato da prigioniero in un campo poco lontano da dove ora sorge la mia casa. Da quel momento, da quando cioè sentii gridare il nome del mio paese in un piccolo villaggio polacco, ho capito la “paesanità” di ogni abitante della terra, da allora, in guerra e in pace, nella fame, nella sofferenza, o nell’abbondanza e nell’allegria, in ogni luogo ho incontrato “compaesani”. Forse il luogo dove mi sento un po’ straniero è la città, dove il traffico, la fretta, il rumore non mi fanno sentire le voci degli uomini. Ma no, non è vero nemmeno questo perché lì, in ogni angolo, puoi trovare un nero che ti regala un sorriso luminoso.

Auguri a “Cittadini” dal compaesano Mario».

*da NORDESTEUROPA.IT, settembre 2008

IL SERGENTE, GLI ZINGARI E LA “COMPAESANITA'”ultima modifica: 2010-06-16T10:48:47+02:00da sergiofrigo
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